la gaia educazione

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venerdì 20 luglio 2012

Ai venditori di competenza emotiva (repetita iuvant?)


La “competenza emotiva” è entrata prepotentemente nei percorsi di educazione dei bambini e dei giovani. Per molti ciò suona come una grande conquista. Finalmente anche la terra desolata e emarginata delle emozioni fruisce di uno spazio sistematico di elaborazione formativa nelle nostre scuole e nelle nostre università. Ma è davvero così? Anni fa (nel 2000 per l’esattezza), in un piccolo libro dal titolo Miti d’oggi nell’educazione e opportune contromisure, già mi espressi con sincera disapprovazione per il grande successo che i libri di Daniel Goleman raccoglievano presso il nostro mondo editoriale e presso molti docenti universitari. Oggi la mia preoccupazione non è per nulla calata benché talune esperienze di educazione emotiva, specie nelle scuole dell’infanzia, abbiano assunto i propositi golemaniani non sempre in una versione così radicale e strumentale come apparivano nel testo del loro vate. E tuttavia credo valga, e forse a maggior ragione la pena, di tornarci sopra per risottolineare come l’intelligenza emotiva abbia allargato i propri consensi, come si sia riprodotta con singolare e inquietante generosità e come, soprattutto, a tutt’oggi, i rilievi critici restino sostanzialmente inesistenti. Possibile? Possibile davvero che non ci si renda conto che l’illuminazione sistematica di questa sfera così delicata del nostro essere, a tutto profitto delle nostre prestazioni operative, -perché, come è evidente di questo si tratta nell’ideologia dell’intelligenza emotiva- non venga letta come un infausto, tra i molti, segno del tempo? Sia chiaro, la conoscenza delle emozioni, della loro genesi, dei loro effetti, della loro complessa fisionomia, è qualcosa che viene da molto lontano e non è dato preoccuparsi per essa. Così pure una deontologia emozionale, una terapeutica, un’elaborazione e sia pure dei metodi di contenimento e filtrazione delle emozioni, sono cose che hanno una storia assai lunga e molto colta (che compare assai poco però nelle sedi educative come oggetto di esperienza culturale). Ma la “competenza emotiva” è cosa che si staglia su questo scenario con una sua ben specifica e allarmante singolarità. Che si attesta chiaramente sul fronte degli studi di tipo neuropsichiatrico e neurocognitivo, dunque sul fronte della scienza dura e fortemente finalizzata ( e fortemente finanziata, non a caso) ma che soprattutto conduce i risultati di queste ricerche nella direzione di una “farmacologia”, e non soltanto di natura chimica, decisamente preoccupante. Ciò che già Goleman prescriveva alle nostre scuole alla fine del secolo passato, i corsi di alfabetizzazione emozionale, erano un’arma per imporre il dominio della ragione sopra il mondo delle emozioni. Ora, come già evidenziavo allora, le emozioni non sono una materia di natura razionale, come è evidente, sono la manifestazione sensibile delle nostre profondità, del nostro corpo, dei nostri istinti, o, se si preferisce, del nostro inconscio. Veicolano in forme molto diversificate le tensioni, le reazioni, le affezioni che patiamo nella nostra vita secondo differenti modalità espressive. Così proviamo e manifestiamo – legittimamente- tristezza e talora depressione quando siamo colpiti da una perdita, quando assistiamo a un evento drammatico o tragico. Proviamo e manifestiamo –legittimamente- rabbia quando siamo feriti da qualcosa o da qualcuno o quando siamo aggrediti o umiliati. Proviamo e manifestiamo –legittimamente- malinconia quando siamo immersi in riflessioni sulla memoria, sul trascorrere del tempo. E così via. Le emozioni sono il nostro ambito più autonomo, più indominabile proprio perché la loro genesi non appartiene al nostro io, giace più in profondità, è radicata nel nostro corpo animale. Il che naturalmente può essere sgradevole o addirittura intollerabile. Ciò è ovvio. Ma è essenziale, persino salvifico. Come potremmo ribellarci ad una situazione che ogni giorno ci mortifica e ci perseguita se non provassimo alcuna emozione, come una macchina? Come è noto infatti le macchine sono state create anche per sollevarci spesso da qualcosa che può essere troppo gravoso per noi, come molti lavori, molti, non a caso, travagli. Ma questa idea, quella cioè di sollevarci e sgravarci dal dolore che molte esperienze portano con sé, può essere sfruttata in maniera più sottile e pervasiva. Proprio attraverso la competenza emotiva. Goleman non ne faceva mistero. Per lui il quoziente emotivo, termine quant’altri mai rappresentativo di un’ideologia a forte connotazione pragmatica e produttivista, doveva essere registrato premiando la capacità di conoscere e dominare le emozioni (quelle negative) e ancora di saperle leggere negli altri (empatia), non tanto al fine di comprenderli, quanto al fine di essere più efficaci. Nel senso che se imparo a conoscere meglio lo stato d’animo dell’altro, sarò più abile ad intercettarne le attese e a manipolarlo secondo i miei interessi. In realtà, quello che propone Goleman e con lui tutta l’ideologia dell’intelligenza emotiva, è l’addomesticamento delle emozioni e il loro sfruttamento al fine di ottimizzare le proprie prestazioni professionali e personali. In tal senso egli arriva al limite di prescrivere l’eliminazione delle emozioni sgradevoli e ostacolanti per coltivare soltanto quelle positive e performanti (in tal modo prefigurando uno scenario già letterariamente noto, quello di un mondo dove, grazie all’ingegneria genetica, le emozioni “disturbanti”, siano state raschiate via “ab origine”) . Un suo famoso esempio riportava il caso di una coppia in condizione di “piena emozionale” durante un litigio. Il suo consiglio era di fermarsi, controllare il proprio battito cardiaco e, qualora avesse superato una certa frequenza “ a rischio” dal punto di vista della”scarica” che avrebbe potuto produrre, di prendersi una pausa di dieci o venti minuti. Una caricatura molto “americana” di un mondo futuro di persone altamente consapevoli e capaci di regolare i propri flussi emozionali in modo che non producano attriti nella vita sociale. Certo, anche una persona sottoposta a sfruttamento del suo tempo e dei suoi diritti sul lavoro potrebbe agevolmente di tanto in tanto sottoporsi allo stesso esame, in modo da tornare, dopo adeguata pausa (sempre se concessa), a produrre profitto rasserenato e senza aloni sulla camicia. Così pure in futuro potrebbe esserci consigliato, sempre sulla stregua di un tale esempio (ma questi manuali sono sempre prodighi di esempi edificanti), per esempio dopo un lutto, di fare frequenti esercizi di focalizzazione cognitiva su oggetti dispensatori di gioia in maniera tale da non soffrire di penose perdite di efficienza nell’assolvimento dei nostri compiti lavorativi. Naturalmente la parenetica dell’intelligenza emotiva non fa cenno a casi simili, per quanto essi siano già da tempo il campo d’azione sistematica di una “farmacologia” tutta chimica questa volta, orientata a evitare pericolose defaillances al business.
Ma l’intelligenza emotiva non dichiara la sua collusione con l’industria del farmaco e, a cascata, con il sistema industriale tout court, lei è più buona, più soft. Vuole dispensarci dal dolore, è in realtà una terapia del dolore e della consapevolezza. Conosciamo i nostri sentimenti e…sapremo usarli meglio. E sì, perché questo è il succo. Basta con l’essere succubi delle emozioni, siamo noi a decidere quali emozioni dobbiamo avere in un determinato frangente! Qui non è in gioco il sussiego psicoanalitico che ancora si attardava a contrapporre e talora persino a tentare di comporre il principio del piacere con quello della prestazione. O meglio, ciò che allora pareva -nelle menti migliori si badi perché poi molta psicoanalisi si è fatalmente “psicologizzata”, per così dire-, un conflitto, per i fautori della competenza emotiva non è più tale. Persuasi dall’idea che in fondo tutto si sana con dosi di “effectiveness”, cioè con la sensazione di essere efficaci, il che può anche essere talvolta verosimile, piacere e prestazione vanno a braccetto nei corsi che insegnano ad aver successo con il controllo, la diagnosi veloce e il trattamento delle emozioni a fini appunto di “effectiveness”. Persone efficaci, ma soprattutto efficienti, questo vogliono i solerti venditori della “competenza emotiva”, materia scolastica e parascolastica, oggetto di innumerevoli corsi e master all’insegna del buon umore e di una vita piena di “realizzazioni”. Basta con i sognatori, gli introversi, i melanconici, queste emozioni si possono sedare con pochi esercizi di psicologia cognitiva, e dove non bastasse, ci sono ottimi farmaci, sempre più precisi e circoscritti. Basta con le depressioni, e che diamine! Dopo un lutto, o più semplicemente in presenza di una malattia cronica e invalidante, perché deprimersi quando c’è un’ offerta di competenze emotive ad hoc per continuare a sperare, godere, e soprattutto a fare? Fare fare fare è l’imperativo dei venditori d’intelligenza emotiva. A loro non piacciono i dispersivi, i conflittuali, quelli che si attardano in inutili e magari persino critiche manifestazioni di dissenso emotivo. Il destino ce lo si forgia da sé. E dove non basta, ci sono ottimi esercizi per migliorare le proprie prestazioni, specie quelle più indomabili e perniciose, quelle emotive. Ecco come allora l’intelligenza emotiva vada a braccetto con tutto l’armamentario ideologico del nuovo e rampante efficientismo, con la propaganda del merito, della competenza e della competizione, ça va sans dire. Non credo che ci si debba rallegrare che tutto ciò sia entrato nelle nostre scuole. Anch’io a suo tempo avevo pensato che fosse una buona pubblicità alla totale mancanza di cultura affettiva nell’esperienza dell’educazione. Ma qui non si tratta di cultura delle emozioni, che dovrebbe interessarsi del giacimento prezioso di tutte le emozioni senza distinzione così come si è attratti e affascinati da una grande foresta vergine, che andrebbe tutelata e protetta e conosciuta nella sua complessità reticolare ma non per fini di sfruttamento della sua materia prima. Qui, come troppo spesso accade proprio quando qualcosa entra nella scuola, si tratta di un’illuminazione oscena, predatrice, che vuol far fuori il necessario complemento di misteriosità, di animalità, di segretezza di questa “riserva indiana”, come la chiamai allora, sempre più piccola e minacciata. Oggi come allora quindi, “non si tratta di rendere intelligenti gli affetti, abbiamo invece bisogno di recuperare l’atmosfera affettiva della conoscenza, l’ eros che è esso sì connesso alla autentica conoscenza e che ci tiene ben lontani dall’idea, fallace e onnipotente, di addomesticare razionalmente le emozioni”.

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