la gaia educazione

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venerdì 6 luglio 2012

Impero visuale e tapineria scolastica


Non è solo la società dello spettacolo, con il suo corredo di figure. E’ il diluvio universale. Il visuale, in tutte le sue sottospeci, ha preso il potere. Da tempo i più sensibili lo hanno avvertito senza scandalizzarsi (Mitchell, Boehme ecc.), altri lo deprecano come si depreca il maltempo, nell’attesa che passi o che si inceppi. Ma il “turn” è avvenuto. Non siamo più immersi nel dominio delle parole, e del suo Logos, dei suoi grifi e delle sue scabre grammatiche. La pasta morbida e metamorfica dell’espressione analogica, di quella visuale in specie, con i suoi polpastrelli adesivi, si è infiltrata ovunque, e agisce. Lo straripamento dell’immaginario, quello degli apparati visuali, distribuiti in maniera capillare, è certamente il più potente sistema di influenzamento mai prodotto nella storia. Di esso, delle sue multiformi manifestazioni, dei suoi congegni, delle sue strategie, dei suoi dispositivi, dei suoi attori e dei suoi stakeholder la nostra educazione resta sostanzialmente all’oscuro. Che fa la scuola tapina mentre la grande piovra delle immagini pende gonfia e gelatinosa dalla volta celeste? La scuola arrocca. Si trincera nella difesa del libro e del lapis, convinta che al brodo confuso del visivo vada contrapposto il duro e ascetico ritorno ai basic della lettura e della scrittura. Il che, se almeno le riuscisse, sarebbe già qualcosa. Ma, intanto, non è forse venuto il momento di somministrare un’altra medicina, magari anche accanto e in buon vicinato con quella nobilissima e onorata della salvaguardia del verbale e del logico, una medicina omeopatica, ove il simile curi il simile? Quando uno spazio adeguato sarà apprestato per l’ingresso finalmente virtuoso della cultura visuale nella scuola? A quando l’afflusso di immagini, immagini floride e seducenti per combattere e compensare quelle anoressiche e pervertite del merchandising plenipotenziario? A quando un sistematico rifornimento di attrezzi per imparare a decodificare l’allusione criptata di un gesto plastico nella comunicazione politica, la sintassi implicita di una luminosità fotografica, la consecutio cromatica di una sceneggiatura pubblicitaria? Occorre irrorare la scuola con la pioggia di una cultura visuale adeguata a distillare il fenomeno visivo nei suoi caratteri, nelle sue forme, nei suoi linguaggi, nelle sue tessiture. Che lo decostruisca permettendo di fissarne, in maniera scalare, la carica manipolatoria, la geologia tematica, la strutturazione dei segni, così esemplarmente indagata da Deleuze, per esempio. Occorre acquisire l’abilità di invertire la progressione della narrazione immaginativa per farne esplodere la stratificazione semantica, la testura, per rendere possibile avvertire che cosa fa l’immagine, come si impossessa di chi la guarda, come lo commuove, lo soggioga, lo plasma. Al tempo stesso l’immagine può diventare il campo di sperimentazione di un’invenzione di forme finalmente intrisa di valenze intuitive e affettive, può essere un teatro di sperimentazione, di gioco, di intreccio e di creazione simbolica. Fuoriuscire dal tracciato geometrico delle parole, per abbracciare la potenza vivente e nomadica delle immagini è sicuramente non solo un gesto di riequilibrio verso il traboccare del blob visivo che non trova dispositivi di filtraggio e di elaborazione decenti ma anche l’occasione per animare la tetraggine del lavoro educativo con la tavolozza innumerabile delle tinte, degli impasti e delle materie. Un irradiamento vitale che conferirebbe alla scuola non solo una contemporaneità intempestiva che ha da sempre perduto ma anche un vigore emotivo che ne dissequestrerebbe, almeno in parte, l’intensità esperienziale.

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