la gaia educazione

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martedì 8 gennaio 2013

Noi mostri e la torsione imprescindibile


Siamo nell’epoca del mostruoso, come l’ha ben definita Peter Sloterdijk, nel suo testo Saggio d’intossicazione volontaria, appoggiandosi, come spesso fa, al linguaggio heideggeriano: “essenzialmente, i tempi moderni sono l’epoca in cui si abbandona la dimora dell’Essere. E’ l’ora del crimine del mostruoso”. “La mostruosità creata dall’uomo dei tempi moderni ha tre volti, tre campi fenomenici: essi si presentano come il mostruoso nello spazio creato dall’uomo, come il mostruoso nel tempo creato dall’uomo e come il mostruoso nella cosa creata dall’uomo”. L’hybris dell’uomo moderno è quella della sperimentazione di massa, della sperimentazione senza limite, che lo espone all’imperativo terribile dell’ “innovazione permanente”. In questo quadro i media assolvono la funzione di tramandare sotto forma di finzione i temi eterni più innocui che si ripetono (nelle sue fiction) ma che di fatto servono solo a eufemizzare l’impatto con la sfida costantemente aperta per l’individuo contemporaneo di forgiare prometeicamente la propria vita ogni giorno di nuovo, inchiodato come Sisifo ad un compito fondamentalmente forsennato e irrealizzabile. E per lo più destinato allo scacco. E’ il volto del nostro mondo a sbigottire: esso è la più patente rappresentazione del mostruoso. Mostruosi sono i segni sul paesaggio: solo una creatura dalla potenza titanica può infierire su e torturare a tal punto il suo habitat, il suo oikos. Il tempo è devastato dai meccanismi brutali del suo calcolo, della sua misurazione, della sua costrizione. Il tempo è costantemente sotto sequestro, nell’epoca contemporanea. E questa è la più autentica catastrofe della nostra epoca. Un tempo di morte, un tempo messo costantemente al lavoro, in produzione. L’epoca del nichilismo compiuto è l’era della totale sincronizzazione, dell’attualizzazione per cui non esiste più alcuna sporgenza nel tempo. Tutto accade sincronicamente, nulla può più accadere in un altro tempo o fuori dal tempo. Infine la modernità è l’epoca del trionfo dell’artificializzazione, come trionfo della cosa svuotata di interiorità, di anima. La tecnica vi si rivela, per usare ancora le parole di Sloterdijk, come “conquista progressiva del niente”. “Nel niente, non vi è più nulla da riconoscere, ma tutto da compiere”. Fine della risonanza simbolica dell’agire, appiattimento sull’azione come “impresa”. Ancora: “la natura e l’Essere hanno perduto il loro monopolio ontologico: si sono visti provocati e rimpiazzati da una serie di creazioni artificiali uscite dal nulla e dall’emergenza di un mondo post-naturale uscito dalla volontà”. Siamo dunque dei mostri, mostri sempre affaccendati, multitasking, senza tempo e sotto un cielo vuoto, abitanti di una terra depredata e desertificata, sempre a caccia di un qualunque tappo per frenare l’abisso che ci si spalanca intorno. Ci riempiamo la giornata di impegni per dimenticarci di tutto ciò che ci frana intorno. Siamo mostri: automi sogghignanti e distratti, sempre con il sorriso sulle labbra e implacabilmente mai concentrati su niente, neppure durante le sedute di yoga, perché nella posizione del cane con la testa in giù già stiamo pensando al tweet da inviare quanto prima o alle telefonate da fare. Senza sonno e senza pause, viviamo accerchiati da dispositivi che crediamo di usare e che sappiamo benissimo che ci usano. E il nostro esserne usati è una resa in cambio di uno straccio inzuppato di aceto con cui tamponare il nostro ordinario dissanguamento. L’ horror vacui è la sindrome dell’epoca, e ciò è stato da molto tempo più e più volte sottolineato , senza che però ciò desse luogo ad alcuna inversione di tendenza. Siamo tutti affetti da quel “disturbo dell’attenzione e iperattività” con cui crediamo di poter etichettare i nostri bambini spaesati e piombati in un mondo che non ha spazio né tempo per loro né men che mai per la loro inconfondibile “estraneità”. Siamo affamati di tutto ciò che possa esorcizzare i terribili fantasmi della malattia e della morte che danzano forsennatamente intorno a noi e alle nostre città. Eppure. Eppure bisogna prestare fede nell’imprevedibile, nella smagliatura, nella torsione improvvisa. Per chi, come me, crede nella versione antidialettica della storia di Walter Benjamin, non certo proiettata in un processo progressivo bensì fatta di risucchi, di improvvisi attriti, di sbandate e di reversioni inattese, il credere nell’impossibile è giocoforza. E l’impossibile si accende di fioche luci nell’oscurità più fitta sussurrando la preghiera di un nuovo incantamento (le “lucciole” di cui ci parla Didi-Huberman riesumando Pasolini). Come pochi eretici continuano a voler credere, da Stiegler a Ritzer a Maffesoli, parole come reincantamento oppure parole che altri, come René Schérer o Raoul Vaneigem, non vogliono considerare inservibili, come utopia, debbono essere pronunciate. Proprio nell’epoca in cui il pragmatismo, i nuovi sintomatici realismi, il pensiero vuoto e strumentale spadroneggiano ovunque. Proprio nel tempo della massima, estrema povertà. L’utopia riemerge come potente perno di riorientamento in un mondo che ha totalmente perso la bussola nei confronti del desiderio, dell’armonia tra forme di vita, rispetto ad ogni sua possibile destinazione che non sia all’insegna dell’entropia e della distruzione. Occorre favorire una “controeducazione” nutrita dall’immaginazione simbolica che non muore, da una rivitalizzazione del sapere come riconnessione con il reticolo delle corrispondenze lacerate e sommerse dall’impeto distruttore di una ragione puramente pragmatica. Quel reticolo di analogie che trama il reale come organismo vivente e sensibile. Assumere parole d’ordine come quelle di “ascolto poetico della natura” di Prigogine, oppure come il “riorientamento simbolico” di Stiegler o ancora persino, per alcuni tratti come le “omeotecniche dello spirito” di Sloterdijk da intendersi come “arti della transizione”, ma soprattutto l’ “atto erotico” del “divenire selvaggi” di Hakim Bey, è uno dei modi “impossibili” per mantenersi sensibili ai segnali in controtendenza di un universo saturo di orrore, di nausea per la bruttezza e la devastazione che avanza, per i disequilibri sempre più insopportabili, per il malessere che ogni organismo ancora minimamente senziente non può non avvertire mentre tutto precipita verso il suo autodafé.

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