la gaia educazione

la gaia educazione

venerdì 22 marzo 2013

Per chi ha orecchie dure (e troppo lunghe): cosa è controeducazione




Controeducazione è questo: difendere e incrementare il diritto sovrano ad affermare l’intensità della vita. Da questa considerazione apparentemente elementare discendono un numero considerevole di conseguenze.

Che, per esempio, ci si impegni alacremente a impedire che la vita venga derubata, saccheggiata, deprivata o ostacolata nel suo sacrosanto diritto ad essere e ad essere nei modi che le convengono, in ogni situazione, educativa ma non solo. Dunque ad impedire che, come purtroppo spesso accade, la vita sia revocata e marginalizzata dai luoghi dell’educazione. Impedire che la scuola si trasformi, come spesso accade, in una prigione, in una trappola, in un luogo di internamento precoce all’interno del quale le risorse vitali, i desideri, le possibilità sono sistematicamente sabotati, perseguitati, interdetti, per sostituirvi procedure di manipolazione sistematica, di disciplinamento, di soggiogamento dei corpi, delle menti e delle emozioni.

Lottare con tutte le proprie forze contro gli ideologi di questa repressione, contro gli ascetisti volgari, contro i teoreti della fatica e del sacrificio, contro gli psicologi che vaticinano destini mortiferi a chi non sappia piegarsi al giogo dell’obbedienza e della coercizione. Significa perseguire al contrario l’idea che sempre e ovunque, qui ed ora, occorre affermare la necessità di un’esperienza plenaria, ricca, vissuta intensamente. E che è grazie ad essa che la vita assume senso, non in virtù di improbabili finalizzazioni di compimento in articulo mortis. Non c’è alcuna saggezza da raggiungere che non sia quella della piena adesione all’esperienza immediata da subito e per sempre. Che non sia la necessità che il desiderio sia sempre il criterio dirimente della sensatezza di un coinvolgimento, di un’azione, di una fatica, qualora essa risulti necessaria per adempiervi.


La controeducazione significa sostituire la volontà di libertà leonina al dovere astratto e caritatevole del cammello, per parafrasare Nietzsche. Volontà di entrare nel circolo di un’esistenza che non si consuma nell’attesa di qualcosa ma che è da subito e continuamente adempimento della pienezza che ogni istante reclama di possedere. Il che non significa una mera esaltazione della gioia, del godimento, del riso (per quanto, come ancora ci ricordava Nietzsche, il riso è il miglior modo per uccidere…). La pienezza è affermazione dell’intensità del vivere, nella sua inesauribile gamma di sfumature, che comprendono irriducibilmente le frequenze più luminose e quelle più buie, le emozioni di piacere più irrefrenabile e quelle di malinconia, di dolore, di mancanza più lancinanti. In una compresenza che è sempre e comunque, quando non gratuita e vessatoria, affermazione vitale.


Controeducazione è piena affermazione del tutto della vita perché essa non sia più derubata, non sia sottomessa, non sia barattata e sfruttata per sostenere l’intensità di alcuni, il loro godimento, il loro dominio, la loro possibilità contro l’impossibilità dei molti.
Niente di utopico, come si vede, solo una caparbia affermazione di giustizia, contro la rassegnazione e l’adattamento, contro l’acquiescenza e la complicità con modelli di educazione che fomentano la passività, la dipendenza, la mortificazione di tutto ciò che non sia conforme, ordinato, prescritto e sottomesso.


Controeducazione è difesa dell’idea che non esiste affermazione di sé in assenza dell’affermazione della vita del tutto. In polemica quindi con gli edonismi puramente individualistici, con il loro nichilismo implicito, e non certo in nome di una benevolenza e di una carità che vuole tutti solidali nella sofferenza e nel martirio. Al contrario nella consapevolezza che il piacere, che l’intensità, che pure si nutrono talora anche del male in tutte le sue forme, non possono mai prescindere dalla possibilità che tutti condividano una tale intensità. Tutti nel senso non solo dell’umanità, presunto baricentro del tutto, ma il tutto nel senso della materia, della natura, delle cose. Tutti godiamo nel bene e nel male, o meglio al di là del bene e del male, ma non mai contro il tutto o contro l’affermazione vitale di esso.
Talora il piacere di uno può generare il dispiacere di un altro, ma solo nella consapevolezza che l’accesso al godimento e al piacere sono l’orizzonte ultimativo cui debbono soggiacere tutte le forme di vita, anche quelle in cui la vita si manifesta in modo silenzioso o immobile.


Giustamente Georges Bataille, evocando il Vangelo, sosteneva che chi cerca di salvare la propria vita, la perderà. Evocazione e reinterpretazione di un passaggio che si rendeva, ipso facto, affermazione dell’eccesso e del perseguimento della dépense e del lusso sfrenato.
Condivido questo richiamo e al tempo stesso lo voglio corroborare con l’idea che il piacere non è un destino ma una conquista, che l’intensità è il frutto anche di un’operatività attenta, sensibile, educata, che godere è, nell’umano, una progressiva forma di affinamento (Vaneigem).


Questa è una controeducazione conseguente: l’affinamento molteplice della nostra sensibilità, del nostro gusto, della nostra capacità di fare di ogni gesto della vita una continua occasione di arricchimento plenario, dove la testa che conosce non è mai staccata dal corpo che sente e dove il godimento del corpo che sente non è mai staccata da una testa che percepisce, elabora, assorbe in un reticolo di corrispondenze di illimitata potenza.


Una controeducazione siffatta ha una lunga tradizione alle spalle, di pensiero poetante, di pratiche emozionate, di esperienze vissute. A tutto questo, a questo sapere integro e entusiasmante, essa si appella, per avviare il superamento del nulla, l’impoverimento del mondo, la malattia proliferante del nostro tempo.
E non per domani, non per il regno millenario a venire, ma da subito, in questa ora, in questo scritto, in tutto quello che immediatamente ne potrà scaturire.
Per rovesciare l’assetto del nostro insensato, insostenibile, incurante fare e sostituirvi un più appassionato, accurato e armonico essere.

martedì 5 marzo 2013

Genitori permissivi e insegnanti perseguitati?


I genitori difendono i loro figli, talora in modo eccessivo, contro gli insegnanti, prendendo per buono ciò che i figli raccontano loro di quello che accade a scuola. E’ un fatto certamente nuovo e rivoluzionario, con il quale, piuttosto che promuovere campagne di mobilitazione collettiva e paranoide, occorrerebbe fare seriamente i conti. E’ un fatto: le famiglie, in larga parte, sono cambiate. Merito o demerito di un’atmosfera sociale molto diversa, di una “società educante” allargata, di una cultura psicologica più diffusa, di un codice materno che sta lentamente soppiantando quello patriarcale.
Ora, sembra che ciò sconvolga molto chi ha sempre creduto che scuola e famiglia dovessero stringere un patto di solidarietà contro i ragazzi, un patto disciplinare e normativo, quello che ha dominato per anni e in virtù del quale i ragazzi cercavano di tenere nascoste eventuali “monellerie” compiute a scuola o giudizi negativi degli insegnanti. Quel patto che spesso raddoppiava le umiliazioni patite a scuola con quelle patite a casa. Dove il cattivo voto diventava punizione (spesso fisica) in famiglia. Un mondo che riteneva i ragazzi alla mercé del mondo adulto, che poteva disporne a piacimento, essendo inteso che i ragazzi non avevano titolo ad esercitare alcuna decisione in proprio (almeno fino alla maggiore età) e che tutto ciò che veniva fatto, veniva fatto sempre per il loro bene. Sappiamo come funzionava tutto ciò. Si trattava di un sistema repressivo, violento, che forse (e sottolineo il forse) conseguiva alcuni obiettivi formativi per altro assai discutibili (una certa disponibilità al’obbedienza, alla dipendenza e alla sottomissione) ma indubbiamente favoriva nevrosi e complessi di ogni genere. Oggi le famiglie, in larga misura, sono cambiate. Abbiamo assistito al germoglio della famiglia “affettiva”, che vezzeggia i suoi virgulti, li ascolta, li difende, li assolve persino.
A prima vista non mi pare tanto male, se è così. Credo che una famiglia del genere non sia da considerarsi poi tanto strana se tenda a prendere le difese di un figlio che si lamenta di essere stato maltrattato da un adulto in altra sede, sia esso insegnante, prete o allenatore (ricordiamoci che molti ragazzi e ragazze per anni e per secoli non hanno avuto il coraggio di denunciare gli abusi di cui sono stati vittime, in famiglia o al di fuori di essa, anche in virtù di un atteggiamento di sottomissione e di mancanza di interlocutori adulti validi). Certo questo può produrre qualche inconveniente: i ragazzi che non amano un adulto possono calunniarlo o farlo perseguitare per sciocchezze. Ma questo è un dato ormai ineliminabile e che, a mio giudizio, dovrebbe indurre la scuola e gli insegnanti alla massima accortezza riguardo ai loro metodi normativi. Essi non vanno più di moda, quali che siano. Occorre che ogni sanzione sia sempre ben giustificata e giustificata in primis ai ragazzi stessi, che ormai hanno imparato a difendersi e anche a offendere, facendo leva sulla protezione che i genitori di oggi sono disposti a fornire loro. E’ finita l’epoca in cui l’insegnante e il genitore impugnavano insieme la bacchetta e la cinghia per raddrizzare le schiene poco docili. Oggi i sistemi punitivi sono caduti in grande discredito. E di ciò ritengo che non ci si dovrebbe lamentare, essendo stati, specie nei confronti di bambini e ragazzi, una vera e propria piaga, che ha fatto e deve continuare a fare scandalo. Non c’è alcun bisogno di punire. C’è bisogno di accordarsi, di spiegare, di negoziare, con il linguaggio e le forme adeguate alla comprensione di bambini e ragazzi.
Sequestare un cellulare può sembrare un fatto ovvio. Ma è davvero così? Perché occorre sequestrare un cellulare? Il vero problema non sarà che spesso gli insegnanti non riescono a suscitare l’interesse necessario a rendere non necessariamente preferibile distrarsi con il cellulare? Mi rendo conto che non sia facile ma indubbiamente oggi il problema è questo. Stare a scuola non è più un fatto così pacificamente accettato. Né dagli allievi né dai genitori. Occorre che la scuola conquisti una sua autorevolezza fondata sui fatti, non sulla disciplina. E che impari a persuadere i suoi allievi, obbligati a frequentarla, e sottolineo obbligati, che vale la pena essere lì. Che vale la pena persino spegnere o silenziare il proprio cellulare.
Mi pare onesto. Se io dovessi essere obbligato a trascorrere ore e ore in un luogo tutt’altro che attraente, in compagnia di adulti spesso tutt’altro che interessanti, a fare cose che reputo tutt’altro che di mio gusto, dubito che sarei contento se mi sequestrassero una finestra sul mondo come può essere considerato il cellulare o simili. Credo che occorra finirla con una cultura che ha dato per scontate molte cose, anche che essere a scuola sia un fatto di per sé educativo in quanto obbligatorio o in quanto normato da un sistema disciplinare spesso violento e incurante della sensibilità di bambini e ragazzi. E’ una cultura di cui occorrerebbe vergognarsi più che avvertire la nostalgia.
Forse oggi i genitori, anche per compensare alle loro manchevolezze, alla loro mancanza di tempo, alla loro distrazione, sentono la necessità di riconquistare l’amore dei figli anche con un eccesso di protezione. Può darsi, come può darsi che questo indebolisca i ragazzi e li renda più fragili. Queste spiegazioni, queste diagnosi non mi convincono fino in fondo. I ragazzi di un tempo erano spesso molto vili, molto dipendenti, molto incapaci di farsi valere di fronte all’autorità. Oggi essi non amano farsi mortificare e hanno imparato a reagire. Credo sia un buon segno. Un segno di cui forse, molto presto, ci si accorgerà anche in altri contesti sociali e politici. E’ colpa della famiglia affettiva, della società permissiva, della caduta dei “valori”, quelli dell’obbedienza, della norma e del dovere? Beh, se è così ben venga. Ben venga la fine di un sistema di oppressione di cui ritengo che la gran parte dei bambini e dei ragazzi di questo mondo abbiano il diritto di essere definitivamente esonerati.
Questo non significa assolverli sempre e comunque ma, come per gli adulti, ritenerli persone con pieni diritti, con i quali ogni gesto, ogni imposizione, ogni richiesta deve essere spiegati, legittimati, concordati. Altro che scuola della frustrazione, del sacrificio e della sanzione!