la gaia educazione

la gaia educazione

sabato 12 ottobre 2013

Basta con il trito rito della haute culture!



A C.T., intellettuale di strada incontrato nella mia lontana adolescenza

Come è estenuante il balletto della cultura, sempre così prevedibile, così aristocratico, così appartato! La pletora di conferenze, convegni, seminari, workshop, come si chiamano ora, è diventata incontenibile e, al tempo stesso, nel suo moto d’inflazione rovinosa, più che mai separata, vuota e malsana.

Un piccolo universo di esseri umani compiaciuti (e certo lo so, anch’io lo sono e lo sono stato ahimè) e persuasi di dominare il caos, che si raduna in luoghi invisibili a perpetuare rituali a dir poco logori e inservibili. Persone che gareggiano, lontani da tutto, a misurare chi è in grado di produrre il maggior numero di riferimenti difficili oppure semplicemente che si sfidano a farcire la propria prosa delle connessioni più vertiginose e improbabili. Occasioni dalle quali, il malcapitato che non appartenga al ristrettissimo circolo degli iniziati, può solo recedere confuso e mortificato.

Tutto questo non è davvero nuovo ma la misura della sua diffusione, anche esibita dalle molte vesti che essa assume nella rete, la rende oscenamente invasiva (quanto deludente).

Quando finiremo di abusare della conoscenza per farne un uso esclusivamente onanistico? Quando troveremo (di nuovo, perché talora qualcuno ci ha provato) il coraggio per promuovere solo opere davvero esplosive e degne di impatto verso un pubblico “in opera” e non “in vitro”, che sia altro dagli specialisti e rivolto a loro quando abbiano assunto la forma idonea a incontrarlo, sollecitarlo, inquietarlo?

Sia chiaro, le intenzioni buone, l’operosità emerita, la qualità eccelsa delle materie e delle elocuzioni, restano talora fatti evidenti, pur nel loro nascondimento.

E tuttavia trovo non sia più sopportabile il birignao degli intellettuali che ironizzano e prendono le distanze da tutto ciò che non è il loro peculiare e proprio-ombelicale punto di vista sul mondo. Non è più sopportabile la spocchia, lo snobismo, il cacofonismo delle loro loquele aristocratiche e impraticabili. I derridiani, i lacaniani, i deleuziani, i post e gli alter, gli psico e gli antro, i neo e i wu e i tiq e i qun.

E’ da quando mi ricordo che queste congreghe, non più popolari delle logge massoniche, celebrano le loro messe, senza alcuna convivialità per altro, al ritmo funereo della glossa e dell’ipercitazione. Capisco che la flemma pachidermica e l’arguzia poststrutturalista necessiti di spazi stretti e di pubblici eletti, nonché di una buona dose di autopunizione. E tuttavia mi chiedo se non si avverta l’esigenza di uscire all’aperto, di mettere corpo nei discorsi, di depaludare le prose e di sporcarsi in operazioni forti, finalmente visibili e sensibili. E non penso certo ai festival, marketing pur sempre recintati, buoni per turisti del sapere e lettori debosciati. Se non sia di nuovo il momento di fare cultura con un martello migliore, più rumoroso, meno autoriferito.

Vorrei filosofi neokinici che si ostentino alla folla, vorrei dei Savonarola, non certo i miti esercitatori delle miti ascetica stoica o edonistica epicurea. Vorrei sentir tuonare nei treni e nelle metropolitane, vorrei carri di affabulatori feroci che impediscano il traffico e sfidino il flusso frenetico delle merci. Non miserabili raduni di commilitoni sparuti nei retrobottega di librerie irreperibili anche sulle mappe più fini.

Vorrei immolazioni e orazioni, pubblica denuncia non via internet ma nelle strade, caravanserragli di un sapere detto e fatto su misura, nella forma dei luoghi, siano esse piazze, cortili, boschi o spiagge. Il filosofo che soppianta il dj in discoteca, sommergendo gli astanti con il verbo infiammato di Nietzsche o le poesie di Celan (magari con una musica autenticamente hard-heavy-metal). Vorrei sentire gridare le poesie di Pasolini o le insolenze di Artaud nei mezzanini della metropolitana, davanti alle caserme di polizia, ai caselli della autostrade, nei piazzali della grande logistica.

Vorrei vedere i filosofini, i critici letterari, gli psicantropi, armarsi di pennelli e di vernici e riprovare a scrivere sui muri le parole che scambiano tra loro al mercatino della vanità.

Vorrei sentire in permanenza voci forti e irriducibili scatenare la prosa antica e quella del grande teatro dell’assurdo davanti ai palazzi del potere, nelle piazze gremite, nei concerti di musica rock (qualche anno or sono le le lezioni in piazza ne furono un timido avamposto).

Se non altro, renderanno più forte la loro voce, più affilate e precise le loro parole, più soda e scura la propria carne, esposti alle intemperie e agli insulti ma anche alle ovazioni e all’abbraccio di qualcuno improvvisamente rinsavito, rinato, guarito!

E a chi crede alla scorciatoia dei magna media, delle televisioni e dei giornali, sappia che di lì il suo sapere ritorna letame ma letame sfatto, avvelenato e defunto. Di lì, dallo spettacolo massacrato dalla pubblicità, esce solo la morte, la Morte anzi, con la m maisucola, dalla quale non si torna indietro.

Dei seminari, delle conferenze, dei convegni dai quali mai è scaturito nulla, non si può più neanche sentire parlare. Occorre che chi sa, se sa davvero (e non fingo di non sapere che il sapere, per farsi, deve pure avere fermentato in qualche tiepido alambicco), faccia sapere, brandisca il suo sapere come arma, in giro per il mondo, all’aperto, non più il godemiché su misura per le agonìe dei “giusti” in qualche club privé.

Nessun commento:

Posta un commento