la gaia educazione

la gaia educazione

giovedì 17 ottobre 2013

Psicologizzazione o politica dell'educazione?



E’ di tutta evidenza che l’opinione sull’educazione è ormai totalmente delegata agli psicologi, con una nutrita rappresentanza di psicoanalisti (il che è di per sé bizzarro, visto le cattive acque in cui questo sapere ha sempre avuto fama di versare, dal punto di vista scientifico…).

Gli psicologi imperversano, dall’alto delle loro poltrone e dei loro studi clinici, diagnosticando, affabulando, prescrivendo. Il transfert dallo studio o dal centro analitico alla scuola, ai campi gioco e alle famiglie è globale e imperterrito. Veri e propri guru freudiani della sana educazione ci propinano le loro ricette a spron battuto.
La litanìa è nota: scomparsa (o evaporazione, nei più raffinati) del padre, legami duali con la madre o il materno, narcisismo, fragilità, vulnerabilità, disturbi e angosce, intolleranza alla frustrazione ecc. ecc.
I bambini e i ragazzi del nostro tempo sono figli della crisi della società patriarcale, incapaci di affermarsi e di spezzare il legame con gli affetti primari, deboli, insicuri e angosciati. Naturalmente, una vaga nostalgìa dei tempi passati si avverte :purtroppo le grandi isterìe e il masochismo sembrano finiti in soffitta per lasciare il posto alle sindromi identitarie e al “godimento” generalizzato con tutto ciò che ne consegue (debosciamento, violenza, disperazione). E tuttavia raramente si prescrive il ritorno all’autoritarismo paterno. Si raccomanda piuttosto una via di elaborazione intermedia, fatta di guida paziente, di dialogo e di rinascita comune di padri e figli all’insegna di una nuova alleanza.

Tutto ciò, non lo nego, non è privo di suggestione, per quanto queste analisi piene di generalizzazioni indebite appaiono poco aderenti alla molteplicità e alle singolarità.
Ma è anche facile capire perché godano di tanto credito e siano tanto amate da chi desidera influenzare l’opinione pubblica.

In esse, curiosamente, non compare mai alcun riferimento ad altro che non sia appunto la relazione umana, e in particolare la relazione famigliare, più o meno trasferita altrove, e responsabile di tutto. Nessun accenno alle strutture profonde dell’educazione, ai suoi spazi e ai suoi tempi, ai suoi fini ideologici, alle sue compromissioni politiche. Rari accenni alle grandi trasformazioni sociali, che alla fine sembrano esse stesse il risultato delle trasformazioni famigliari, e non l’inverso. Nessun accenno a quello che Foucault definiva dispositivo di potere, al reticolo di discorsi, di pratiche e di pressioni cui i bambini e i ragazzi sono sottoposti dalla loro precocissima presa in carico dalle istituzioni (che francamente rendono piuttosto esiguo il ruolo delle famiglie).
Si continua, con una retorica sconsolante, a sottolineare quanto il patriarcato sia in crisi a partire dalle sindromi identitarie dei giovani quando il nostro mondo e non solo più il nostro appare se possibile ancora più scatenato e feroce che mai nel suo impeto distruttivo, nella sua competizione irrefrenabile, nel primato di un principio di prestazione (tipicamente maschile e paterno, o fallico se si preferisce) che, con l’elogio unilaterale della meritocrazia, dell’eccellenza, e del profitto che si può ricavare dai “cervelli” più o meno in fuga, mai sembra aver goduto di tanta salute e consenso.

Ma no, i nostri bambini non sono figli soprattutto di tutto questo, di una società dove gli adulti sono come pescecani addosso ai quali abbiano gettato un pezzo di carne sanguinolenta, dove tutti sono centrati solo sul proprio successo personale, sulla propria salute personale, sulla propria salvezza personale, in barba a qualsiasi principio comune o “matristico”, per dirla con un linguaggio vagamente antropologico. No, il problema è la scomparsa dei padri.

Mi chiedo che cosa davvero vedano nel chiuso dei loro studi pagatissimi e aristocraticissimi questi professionisti dell’interpretazione. Certo, vedono i rampolli delle famiglie danarose con figli o figlie bulimici o anoressici, in preda al tentativo di sfuggire all’orrore per le proprie case dove padri filibustieri e madri alcolizzate (e viceversa) tentano a turno di ignorare la fatica di esistere dei figli che hanno messo al mondo. Oppure vedono giovani in preda al disturbo del deficit dell’attenzione per una scuola che tutto fa, fuori che tentare anche solo un poco di interessarli e coinvolgerli intorno a qualcosa che davvero abbia a che fare con loro.

Vedono male. Vedono poco. E seminano il dubbio che la colpa di tutto sia nelle relazioni affettive, come se ne esistessero ancora.

Forse occorrerebbe uno sguardo più politico, più smaliziato, capace di leggere la realtà su più piani, come per esempio faceva un filosofo “politico” in un celebre libretto che si intitolava “Educazione” ormai molti anni fa,Fulvio Papi, o Riccardo Massa, un pedagogista che certo non si faceva sedurre dallo psicologismo arrembante. Magari partendo dai piani più sfuggenti, come quello sì fortemente simbolico della distribuzione delle ricchezze, delle classi che, ahimè, ci sono ancora, anche se non hanno più lo stesso profilo di cento anni fa, dei dispositivi di potere, delle trame della merce, del denaro, del profitto, capaci di sagomare i nostri destini ben più di quanto non facciano nella loro frenesìa impotente i nostri poveri genitori.

Questa non è una società senza padri, è una società in cui la paternità si è tradotta nell’astratta ferocia dell’unico vero dio sopravvissuto, il denaro, è la società del profitto e dello scandalo di una competizione globale dove a soccombere sono tutti, tutti i deboli, cioè quasi tutti in fin dei conti, piccoli e grandi, dove non c’è pietà per nessuno, non c’è amore per nessuno, non c’è rispetto per nessuno e nessuna cosa. Valori questi ultimi che forse rinviano simbolicamente alle figure anche del padre e della madre, ma che soprattutto rinviano alla scomparsa di ogni tutela, ogni cura, ogni prossimità, ogni intimità, il che significa scomparsa di dimensioni dell’esperienza notturne, femminili, quelle sì, di cui non si sente neppure più implorare il bisogno, tanto appaiono impossibili e veramente interdette.

Mentre a “godere”, a godere sfrenatamente, sono sempre quel pugno di soliti, un pugno di privilegiati, che però tutti quanti (e confessiamolo!), a caccia di successo, si sogna più o meno smaccatamente di arrivare ad essere (e qualcuno ce la fa anche!).

Le scuole fanno il loro lavoro di sempre: rendere docili i corpi per un sistema pronto a stritolarli, con i suoi bravi insegnanti, pieni di buone intenzioni, di valori umani ma del tutto impotenti di fronte alle leggi dell’economia, quelle che continuano a sagomare il tessuto delle procedure che davvero contano, nelle scuole, al di là di ogni pia buona intenzione: gli esami, le interrogazioni, i voti, le schede, l’apparato enciclopedico e astratto dei saperi, il primato dei cervelli, l’immobilizzazione dei corpi, l’anestesia degli affetti, l’espulsione di ogni dimensione poetica, gratuita, dissipativa, perfino semplicemente interpretativa. Più che mai oggi scuole e università, ben oltre l’assenza o l’evaporazione dei padri, sono il luogo dove vige l’unica legge che governa tutte le autentiche politiche della formazione: quella che il vecchio Marx, e non me ne si voglia se oso citarlo ancora (sì lo so è morto ma allora anche Freud abbiate pazienza), definiva “accumulazione illimitata di capitale” (oggi noi, eufemisticamente, la chiamiamo “crescita”).

sabato 12 ottobre 2013

Basta con il trito rito della haute culture!



A C.T., intellettuale di strada incontrato nella mia lontana adolescenza

Come è estenuante il balletto della cultura, sempre così prevedibile, così aristocratico, così appartato! La pletora di conferenze, convegni, seminari, workshop, come si chiamano ora, è diventata incontenibile e, al tempo stesso, nel suo moto d’inflazione rovinosa, più che mai separata, vuota e malsana.

Un piccolo universo di esseri umani compiaciuti (e certo lo so, anch’io lo sono e lo sono stato ahimè) e persuasi di dominare il caos, che si raduna in luoghi invisibili a perpetuare rituali a dir poco logori e inservibili. Persone che gareggiano, lontani da tutto, a misurare chi è in grado di produrre il maggior numero di riferimenti difficili oppure semplicemente che si sfidano a farcire la propria prosa delle connessioni più vertiginose e improbabili. Occasioni dalle quali, il malcapitato che non appartenga al ristrettissimo circolo degli iniziati, può solo recedere confuso e mortificato.

Tutto questo non è davvero nuovo ma la misura della sua diffusione, anche esibita dalle molte vesti che essa assume nella rete, la rende oscenamente invasiva (quanto deludente).

Quando finiremo di abusare della conoscenza per farne un uso esclusivamente onanistico? Quando troveremo (di nuovo, perché talora qualcuno ci ha provato) il coraggio per promuovere solo opere davvero esplosive e degne di impatto verso un pubblico “in opera” e non “in vitro”, che sia altro dagli specialisti e rivolto a loro quando abbiano assunto la forma idonea a incontrarlo, sollecitarlo, inquietarlo?

Sia chiaro, le intenzioni buone, l’operosità emerita, la qualità eccelsa delle materie e delle elocuzioni, restano talora fatti evidenti, pur nel loro nascondimento.

E tuttavia trovo non sia più sopportabile il birignao degli intellettuali che ironizzano e prendono le distanze da tutto ciò che non è il loro peculiare e proprio-ombelicale punto di vista sul mondo. Non è più sopportabile la spocchia, lo snobismo, il cacofonismo delle loro loquele aristocratiche e impraticabili. I derridiani, i lacaniani, i deleuziani, i post e gli alter, gli psico e gli antro, i neo e i wu e i tiq e i qun.

E’ da quando mi ricordo che queste congreghe, non più popolari delle logge massoniche, celebrano le loro messe, senza alcuna convivialità per altro, al ritmo funereo della glossa e dell’ipercitazione. Capisco che la flemma pachidermica e l’arguzia poststrutturalista necessiti di spazi stretti e di pubblici eletti, nonché di una buona dose di autopunizione. E tuttavia mi chiedo se non si avverta l’esigenza di uscire all’aperto, di mettere corpo nei discorsi, di depaludare le prose e di sporcarsi in operazioni forti, finalmente visibili e sensibili. E non penso certo ai festival, marketing pur sempre recintati, buoni per turisti del sapere e lettori debosciati. Se non sia di nuovo il momento di fare cultura con un martello migliore, più rumoroso, meno autoriferito.

Vorrei filosofi neokinici che si ostentino alla folla, vorrei dei Savonarola, non certo i miti esercitatori delle miti ascetica stoica o edonistica epicurea. Vorrei sentir tuonare nei treni e nelle metropolitane, vorrei carri di affabulatori feroci che impediscano il traffico e sfidino il flusso frenetico delle merci. Non miserabili raduni di commilitoni sparuti nei retrobottega di librerie irreperibili anche sulle mappe più fini.

Vorrei immolazioni e orazioni, pubblica denuncia non via internet ma nelle strade, caravanserragli di un sapere detto e fatto su misura, nella forma dei luoghi, siano esse piazze, cortili, boschi o spiagge. Il filosofo che soppianta il dj in discoteca, sommergendo gli astanti con il verbo infiammato di Nietzsche o le poesie di Celan (magari con una musica autenticamente hard-heavy-metal). Vorrei sentire gridare le poesie di Pasolini o le insolenze di Artaud nei mezzanini della metropolitana, davanti alle caserme di polizia, ai caselli della autostrade, nei piazzali della grande logistica.

Vorrei vedere i filosofini, i critici letterari, gli psicantropi, armarsi di pennelli e di vernici e riprovare a scrivere sui muri le parole che scambiano tra loro al mercatino della vanità.

Vorrei sentire in permanenza voci forti e irriducibili scatenare la prosa antica e quella del grande teatro dell’assurdo davanti ai palazzi del potere, nelle piazze gremite, nei concerti di musica rock (qualche anno or sono le le lezioni in piazza ne furono un timido avamposto).

Se non altro, renderanno più forte la loro voce, più affilate e precise le loro parole, più soda e scura la propria carne, esposti alle intemperie e agli insulti ma anche alle ovazioni e all’abbraccio di qualcuno improvvisamente rinsavito, rinato, guarito!

E a chi crede alla scorciatoia dei magna media, delle televisioni e dei giornali, sappia che di lì il suo sapere ritorna letame ma letame sfatto, avvelenato e defunto. Di lì, dallo spettacolo massacrato dalla pubblicità, esce solo la morte, la Morte anzi, con la m maisucola, dalla quale non si torna indietro.

Dei seminari, delle conferenze, dei convegni dai quali mai è scaturito nulla, non si può più neanche sentire parlare. Occorre che chi sa, se sa davvero (e non fingo di non sapere che il sapere, per farsi, deve pure avere fermentato in qualche tiepido alambicco), faccia sapere, brandisca il suo sapere come arma, in giro per il mondo, all’aperto, non più il godemiché su misura per le agonìe dei “giusti” in qualche club privé.