la gaia educazione

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sabato 12 luglio 2014

Delle nostalgìe dell'amore eterno



Circola molta nostalgìa. Una nostalgìa menzognera, in quanto proietta nel passato l’idea che in esso siano custodite le icone della certezza, della verità, dell’eterno. Il che è solo parzialmente vero, soprattutto se a quelle certezze si voglia connettere un’ipotesi di vita più integra, più autentica, più piena.

In realtà l’unica certezza del passato è che in esso i dispositivi del potere erano molto più capaci di dominare il destino delle persone di quanto non lo siano oggi. La debolezza dell’ignoranza rendeva le persone molto meno capaci di disegnare un proprio destino altro da quello che le diverse istituzioni (stati, chiese, padroni) prescrivevano loro.
Nel nostro tempo le forme del potere hanno dovuto sofisticarsi e investire capillarmente l’immaginario profondo proprio perché la consapevolezza delle persone è molto più attrezzata e in grado di distinguere e respingere le pratiche più rozze del soggiogamento.

L’unica vera certezza che ha abitato il passato è stata, su vasta scala, quella del dominio.
L’amore eterno, una bugìa con cui spingere i popoli in simulacri di vita, mentre i potenti vivevano amori libertini e raffinati. Il matrimonio, una istituzione buona per i poveri in spirito e in materia. Per i potenti (maschi naturalmente ma non sempre e non solo) è stato sempre e soltanto un paravento simbolico, dietro il quale consumare vite all'insegna dell'eccesso. E così via.

Certo, la favola bella dell’amore eterno è in sé struggente e al tempo stesso rassicurante. I casi rari di amori tali, mi viene in mente André Gorz e il suo bel libro alla moglie appena scomparsa, sono stati il frutto di catene di circostanze imprevedibili e particolarmente singolari. L’incontro amoroso resta qualcosa di estremamente delicato, vulnerabile, preda di un vortice incessante di scarti, di iati e di rare coincidenze. L’accettazione integrale dell’altro è una chimera altrettanto radicale, che si fonda sull'accettazione di amputazioni non sempre contenibili entro una soglia sensata di sopportabilità. L’entropia amorosa è un percorso così evidente che non necessita neppure di essere esemplificato. Piuttosto taluni eroismi amorosi sono l’effetto di concatenamenti aleatori, ben altro che l’insistenza nella ripetizione e la divinizzazione della ferita, come sostengono certi nostri psicologi nostrani.

Indubbiamente l’amore a due, la coppia, restano collaudati deterrenti e anestetici potenti contro la morte (quella sì unica e certa) e come tali offrono un riparo tra i più frequentati (con buona pace dei nostri savonarola scagliati contro il malcostume del tempo). Ma la morte, che siamo d’accordo sta anche e forse soprattutto nell’affermazione feticistica dell’ego, si eufemizza forse solo dissolvendosi nel flusso dei molti, piuttosto che nell’idolatria dell’Altro, il Tu dietro il quale traluce sempre l’ombra del monoteismo.

Chi oggi parla di eternità dell’amore non può non rendersi conto che sta reintroducendo un’idea che in effetti ha avuto una lunga vita nella nostra civiltà ma in tanto e in quanto sussisteva appunto una garanzia escatologica. L’eternità è l’eternità. Nel tempo in cui tutto appare generato dalla fine di questa fede, o, per essere più chiari, nel tempo della morte di Dio, queste parole sono false e ingannatrici. Assumere fino in fondo la propria finitezza, o meglio, vivere con la morte, significa non essere più disposti a sopportare alcuna attenuazione dell’intensità della propria esperienza in attesa di un riscatto trascendente. Il vincolo eterno ha funzionato, o meglio è stato sopportato dalla gran massa delle persone fintantoché si è potuto immaginare una compensazione di una vita dimidiata qui in un’altra vita piena là. Questa è stata la vera ragione che per secoli ha reso sopportabile a moltissimi un destino di sottomissione e di rinuncia.

Oggi questo non ha più alcun effetto almeno sulla massa di chi vive nella nostra civiltà. Che poi resista una sorta di speranza, oltre ogni evidenza, è un’altra questione. Ma occorre tenere conto di questo. E leggerne l’elemento intrinsecamente emancipatorio. Nessuno deve più essere disposto a tollerare nulla che non sia pienamente congruo al suo desiderio di affermazione vitale in un contesto ove la vita è diventata radicalmente immanente. Non solo sotto il profilo delle relazioni ma in ogni senso, nel lavoro, in generale nel disporre del proprio tempo.

Senza escatologie le morali del sacrificio non valgono più. E dunque, per quanto straordinariamente imbellettata, anche l’ipotesi dell’amore eterno, che è chiaramente l’eccezione, e lo è sempre stata, e non la regola, diventa molto sospetta se predicata in un regime di assenza di riscatto eterno. Chi oggi moraleggia ad ogni più sospinto sul fatto che i molti vogliano divorare il loro presente, non coglie questo elemento decisivo, in sé peraltro gravido di un potenziale di insofferenza per ogni forma di dominio.

Vero è che il potere è stato molto abile a indirizzare il desiderio vitale verso mete che esso manipola incessantemente. Ma chi oggi depreca il desiderio di affermazione vitale, l’insofferenza per ogni dilazione del proprio piacere, l’incapacità a tollerare le frustrazioni, forse non si rende conto di questo fondamentale mutamento di prospettiva antropologica. Oggi, in assenza di Dio, ognuno di noi vuole una vita integra, intensa, sempre e comunque. Ogni interruzione di questa possibilità è percepita come un attentato. Tutto ciò può apparire anche tragico, e forse disperato. Ma è anche vero che è proprio questa consapevolezza, quella della tragicità del vivere che, da sempre, rende gli uomini potenzialmente in grado di non farsi rubare la vita. Cosa che invece gli spacciatori di eterno, in genere, hanno sempre fatto e continuano in molti luoghi del mondo, a fare.

E comunque resta il fatto, come detto sopra, che l’amore e il desiderio, ineludibilmente compagni tra loro, sono traiettorie molto fragili, esposte a mille e mille possibilità di infrangersi. E questo tanto più in quanto il mondo si riconosce plurale, molteplice, irriducibile ad ogni fantasma di unicità. Tanto più in quanto si fa aperto alle differenze, alle singolarità, ai mutamenti e al divenire. Solo l’idealizzazione sostanzialista e improponibile di qualche relitto di verità e unicità può oggi cercare di rinverdire l’idea dell’amore eterno o di una maturità sentimentale. Il vento, anzi la tempesta dell’avvento dei molti e diversi rende impraticabile ogni resurrezione di feticci teologici, all’insegna dell’identico. Nulla resta identico, e prima di tutto quello stesso che dovrebbe costruire la pietra su cui fondare l’edificio di una relazione stabile. Non c’è nessuno stesso ma sempre un altro appunto, un altro che di minuto in minuto ci sfugge e si rende irriconoscibile se non a prezzo di sforzi disumani di continuo aggiustamento, di continuo rincorrersi.

Ma, instancabile, l’opera della restaurazione rinasce dalle sue ceneri, là dove non pensavi di trovarla.

Va da sé che l’arrendersi plenario e finalmente innocente al mondo dei flussi, del reversibile e del mutevole è probabilmente ancora lungi dall’accadere, specie quando tornano in auge i miti del sempre, del medesimo e del due, quel due che è sempre una trappola, una trappola comoda per chi vuole soggiogare, non per chi voglia spingere il mondo al possibile. Il possibile è sempre oltre ogni dualismo (dietro al quale naturalmente sibila il vecchio feticcio dell’uno), sta al minimo nella fessura necessaria che fa irrompere il “terzo escluso”.

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