la gaia educazione

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sabato 10 ottobre 2015

Rimuginii oziosi di un ribelle disadattato



A volte mi chiedo se non lavoro per il disadattamento. Può apparire una domanda futile ma io me la pongo. E, più o meno direttamente, me la pongono anche altri. Futile perché è difficile sottrarsi a quello che si è o forse anche perché è così difficile definire cosa sia disadattamento.

Veniamo ad verba, e alla parola sotto processo. Disadattato: sul mio vecchio Zanichelli neppure compare, surrogata dalla voce disadatto, che però non ci serve a nulla (se non a denotare la zona semantica). Vediamo: sull’Hoepli online troviamo, con una bella sigla PSIC.: “chi è caratterizzato da incapacità di affrontare in modo adeguato i problemi posti dall'ambiente in cui vive”. Il che, si presume, ne fa immediatamente un disgraziato, o simile.

Si deve dire dunque che il disadattato adotta soluzioni ai problemi inadeguate e dunque fallimentari per il suo ambiente. Qui si aprirebbero molte interessanti questioni. Anzitutto quella che vede il disadattato potenzialmente adattato a un ambiente diverso dal suo. E’ un’ipotesi che forse proverò a seguire. Ma poi che si tratta di individuare soluzioni a problemi che non vengono dichiarati se non, un po’ genericamente, come problemi postigli dall’ambiente. Tutti?

Certo così il disadattato sembra proprio nei guai, perché se non è in grado, perlomeno in maniera adeguata, di risolvere alcun problema che gli pone l’ambiente, allora vuol dire che è nel disastro. Per esempio dovremmo presumere che non sappia alimentarsi, proteggersi dagli elementi o persino reclamare per sé uno spazio di vivibilità fisica, almeno adeguatamente.
Il disadattato precipiterebbe così nella categoria dell’inabile (ben più radicale di disabile), o del derelitto, almeno sul piano materiale.

In verità io penso ad altro disadattamento, quello che mi affligge personalmente del resto, che si voglia chiamarlo diversamente o più eufemisticamente. Diciamo per brevità che penso a quel tipo di disadattamento o inadattabilità o controadattamento che è appunto l’atteggiamento ribelle, insofferente della norma, dello statu quo. In maniera strutturale. E che proprio in questo senso può anche essere compreso come una sorta di malattia, di deformazione. Questa irresistibile coazione a differenziarsi, a immaginare la vita altrove e mai qui, insomma.

Ecco, la mia attività, i miei libri, il mio “impegno” non sono forse orientati a stimolare quella parte che in ognuno di noi si smarca dalla norma e ci conduce a divenire contro? E in ciò peraltro a diventare inevitabilmente disadattati, infelici, irrequieti, arrabbiati e talora persino disperati, come spesso mi sento io ultimamente (checché si dica e sia stato detto sulla vitalità della ribellione)?

Diceva, come è noto, Thoreau, c’è chi vive “vite di quieta disperazione”. Ahi, davvero? Disperazione? Io vedo persone intorno a me che si accomodano alle regole del gioco e vivono vite tutt’altro che disperate, non so quanto quiete ma certamente convenienti e anche remuneranti dacché si mostrano compiacenti. Chi acconsente allo statu quo è molto più probabile che si danni meno e che addirittura ottenga molto. Le parabole di coloro che hanno saputo rinunciare ai loro spigoli per essere meglio accolti, in ogni campo del vivere sociale, ci raccontano questo. Vivi e lascia vivere. Accetta il codice dominante e otterrai infinite prebende.

Sempre questo codice ha regolato le vite verso la soddisfazione. Può anche darsi che passino poi alla storia gli altri, i sofferenti, gli incompresi, gli inattuali. Ma guardiamoli, osserviamo quanta disperazione, quanto sacrificio, quanta amarezza gli sono costati in vita!
Io amo Nietzsche, amo Van Gogh, amo Artaud, ma la loro divergenza, la loro insofferenza, la loro impossibilità ad adattarsi non gli sono costati terribilmente cari? Certo, hanno lasciato opere incomparabili (per noi disadattati) ma per loro?

Giustamente si potrà dire che non potevano essere diversamente. Che la loro biografia incarna una vocazione, una necessità, un carattere appunto, se non una biologia, alla quale non potevano sfuggire. E sia. Ma ci è dato il lusso di non essere consapevoli della deriva che il propagare simili esempi porta con sé?

Non lo so più. Sono domande futili, perché appunto non si può che essere quello che si è. Ma in fin dei conti ciascuno di noi è davvero ciò che è o è piuttosto quel qualcosa che in lui si dibatte per affermare la sua sporgenza proprio oltre quella norma che lo annegherebbe sì nell’anonimato ma forse gli garantirebbe la quiete e qualche soddisfazione?

Essere qui e ora. Un dilemma, dal momento che non lo sappiamo mai dove siamo veramente. Io sono davvero un ribelle o è l’unica maschera che so indossare? Se fosse così, e dunque potessi pensare che chi seguirà le mie idee sarà anche lui uno con una sola maschera, sarebbe consolante. Non sarà mio demerito. Gli sarebbe comunque accaduto, prima o poi. Una lezione vale un’altra per chi è vocato alla deviazione e all’infelicità.

Ok, sì, tutto questo sa di sproloquio e di autoflagellazione. Ma di questi tempi va così. Oppure è sempre andato così. Il dubbio è che un infelice (io) cerchi di contagiare anche chi non lo è con la sua infelicità e la sua impossibilità a essere felice.

Ma forse, per ribadire il concetto sopra espresso, sarà comunque un destinato all’infelicità, ad allearsi con lui. Sempre che adattamento e felicità, come dicono gli psicologi, siano una sorta di endiade come ahimé appare sempre più chiaramente anche a un irriducibile ribelle infelice (ma forse sarebbe giusto invertire e dire infelice e ribelle) come me.

Consola sapere (si apprezzi l’ironìa) che son ben pochi quelli che ascoltano i miei pensieri. Io stesso uno dei pochi che ha ascoltato i pensieri di altri ribelli infelici. Pubblico scarso, danno limitato.

sabato 19 settembre 2015

Per un'esperienza autentica




Vorrei parlare di un oggetto troppo evidente e forse per questo davvero misterioso. Un oggetto che mi è caro, che nomino, talora forse non sempre con il giusto grado di consapevolezza, o di approfondimento.
Non voglio tirare qui in ballo la lunga lista di tutti quelli che hanno parlato, specie in filosofia, di questo oggetto, l’esperienza. Né men che meno in educazione. E’ fin troppo ovvio che essi parlano in me, come tanti altri e tanto altro.
Questo oggetto mi è caro, l’esperienza, specie se autentica, e già so che aggiungendo questo attributo molti storceranno il naso, in un certo senso perfino io. Ma, proprio con tutto il suo alone ambiguo, il suo odore metafisico e altro, non ne trovo uno migliore. L’esperienza autentica, comunque, fa la differenza. In fondo in tutto.
Che cosa sia un’esperienza, è già difficile dirlo. Ma proverò a far tacere tutte le obiezioni che affiorano ogni volta si provi ad affrontare un’espressione come questa. Di certo è qualcosa che ci riguarda.

Esperienza. Così difficile, così sfuggente. Si è quasi sempre troppo distanti, o distratti, o insensibili, per esperire davvero. Le migliori esperienze ci accadono, inattese : forse proprio per questo, perché non avevamo sondato il terreno, non ci eravamo preparati, non avevamo indossato l’abito adatto, l’espressione adatta, e innescato la paura sottile, o invece spessa, che quell’esperienza categorizzata induce, forse proprio per questo. L’esperienza autentica ci assorbe, ci possiede. E si incarna profondamente in noi.

Oggi, nel tempo in cui la paranoia spadroneggia in ogni dove, e dove occorre essere preparati, istruiti, preventivi, è difficile fare esperienza. Almeno un’esperienza autentica appunto, integra, veemente.
Una esperienza di questo genere, che porta in sé i connotati di quella cosa altresì logora che chiamiamo avventura, è qualcosa che ci coinvolge pienamente. Il più pienamente possibile. Con tutti i sensi anzitutto, al completo. Partecipi e presenti, sensibili e attenti, appassionati e ricettivi. Quanto è difficile, se si pensa a come, nelle nostre vite tutto diventi, giorno dopo giorno, prevedibile, routinario. Come è difficile essere svegli, oppure in uno stato di estatica disponibilità, che non equivale alla presenza della coscienza ma a quella plenaria del corpo, acuta, talora insostenibile, come nel furore di una folla, o nel contatto smisurato di un amplesso.
Ovvio, noi facciamo continuamente esperienza, la nostra esperienza cresce, e forse, man mano che cresce si atrofizza anche, necessariamente, terapeuticamente. Perché l’esperienza, quella autentica, è faticosa, è perfino crudele, a volte.

Un’esperienza autentica però, tale che pervada tutto il nostro organismo, che lo scuota dalle fondamenta, che solleciti e tenda al massimo i nostri nervi, la carne, i sensi, l’attenzione, la curiosità, che lo contorca e rovesci come un quadro di Soutine, resta un oggetto nevralgico per percepire che si sta vivendo e ancor più che si sta incorporando ciò che si vive, lo si sta trasformando nella propria intima fisiologia.
Essere al centro di ciò che accade, essere al completo, essere pienamente. Tutto questo è esperienza autentica, l’unica esperienza che effettivamente lasci una traccia, talora una ferita, talora un segno potente e irrevocabile, talora un ancoraggio inconscio, pronto a riaffiorare involontariamente, magari molto più tardi, per una coincidenza.
Un’esperienza intensa e densa, avrei detto, e direi, forse, pur consapevole che questo tradirebbe una petizione vitalista che tanto sconforta le buone ragioni di una vita misurata e lunga, e vivibile.
Eppure io credo che questo oggetto misterioso e sempre più sconosciuto, dacché tutto congiura a attutirlo, a evacuarlo, a proteggerci dall’impatto con esso – e che tanto più sollecita chi è ancora giovane ma non solo a rincorrerlo nei modi più estremi e talora inappropriati, posto poi che vi sia un’appropriatezza possibile per l’evento di un’esperienza simile- sia il solo in virtù del quale noi possiamo dire di vivere, di vivere veramente. Ed ecco riapparire l’ombra della metafisica. Nel veramente. Ma rinuncio a problematizzarlo. Lo faccia qualcun altro.

Quando si parla di esperienza in educazione – e quanto lo si fa! Quanto la retorica educativa risuona dell’appello all’esperienza, oggi eufemizzato talvolta, erratamente, mescolato con la retorica del fare, o delle pratiche- non si dovrebbe perdere di vista questa destinazione regolativa. Regolativa poiché non si può mai dire quale sia il livello (quantitativo e qualitativo), cui si può spingere il vissuto di un’esperienza. L’esperienza è a molti livelli.
Ma noi dobbiamo, credo, sapere, che solo disponendo il campo dell’evento (educativo) all’irruzione dell’esperienza, possiamo pensare di rendere davvero un dono a chi, volente o nolente, si trova rimesso, tempo e vita, nelle nostre mani inesperte.
Naturalmente l’organizzazione educativa, nelle sue molteplici forme, è quasi sempre insofferente dell’esperienza, e specialmente di quella autentica. Perché essa è di fatto imprevedibile, e selvatica, e pericolosa. Non tanto perché ci si possa fare fisicamente male, il che talora è possibile, ma perché richiede a chi se ne occupa, di affidarsi a un flusso, a qualcosa che lo oltrepassa e che genera effetti che richiedono una continua revisione delle proprie aspettative. Al punto che forse occorre effettuare un’opera preventiva, essa sì, di bonifica di ogni aspettativa. Sapendo che sarà l’esperienza, o l’evento, a generarne in proprio, singolarmente e pluralmente al contempo, ben oltre ogni pretesa, ridicola, di programmazione.

Ora si tratta qui di riflettere su una questione cruciale. E cioè quali sono le condizioni di possibilità perché un’esperienza autentica si dia?
Chiaro che un’esperienza si dà a patto che si lasci avvenire, anzitutto. E però un’esperienza non è solo un accadere nel vuoto, occorre che vi sia un campo. Occorre determinare un campo, che diviene il limite necessario affinché l’esperienza si affacci, prenda forma, evolva.
Dunque la questione cruciale è quella del campo. Si badi bene, non solo un campo operativo, uno spazio, un tempo, un terreno. Ma anche un campo psicologico, emotivo, simbolico.
Occorre coltivare campi di esperienza. Che sono riserve di tempo e spazio liberate da ogni scoria di prevenzione, di pregiudizio, di aspettativa troppo determinati. Il campo è un campo di possibili che si attivano e rendono possibile l’esperienza se il maggior numero possibile delle presupposizioni intorno ad essa sono state elaborate e dissipate.
Se questo campo è abitabile, desiderabile e esplorabile. Se in esso non prende stanza il timore che ciò che accade sia sottoponibile a un giudizio ma sia semmai aperto alla sorpresa dello scoprirne la trama in divenire. Il campo, dove la paura agisce da esclusiva forma istintuale di attenzione, non deve mai essere affidato alle devastanti incursioni della sorveglianza inquisitiva, della valutazione, del giudizio. Tutto questo vanificherebbe (e vanifica, quanto lo fa, nei territori dell’educazione!) la possibilità dell’esperienza.
La paura, beninteso, è un ingrediente dell’esperienza, una paura talora selvaggia, ma non innescata dallo sguardo interessato di un soggetto supposto sapere pronto a intervenire in essa per rettificarla e normarla.

L’oggetto misterioso è qui o forse là, perduto nel tempo, ma ancora potenzialmente sotto gli occhi di tutti. Nella carne di tutti eppure sempre più sepolto e lontano, nostalgico e impossibile. Si impara crescendo che l’esperienza autentica è quella che va progressivamente abbandonata e anestetizzata per sostituirla con le confortanti ripetizioni di un retto agire in conformità delle aspettative sociali. Ma questo non deve ingannarci.
Ci sarà vita (educazione) autentica solo là dove resisterà esperienza autentica, passione feroce, gusto dell’immenso e senza condizioni.

lunedì 8 giugno 2015

Digital nightmare?



Le riflessioni che circolano sulla cultura indotta dall’uso di internet e cellulari sono spesso troppo severe a mio giudizio. Non ho ancora letto il testo di Han ma da quello che ho capito stronca un mondo appiattito e reso acefalo da questo tipo di utilizzo.

Ecco la sintesi delle tesi del filosofo coreano riassunte da uno dei nostri quotidiani nazionali : “La folla che tante conquiste ha ottenuto in passato oggi è soltanto uno sterile sciame. Il mondo virtuale ha perso ogni distanza e quindi rispetto. L'anonimato e la trasparenza sul web sono un male assoluto. La cultura della "condivisione" è la commercializzazione radicale della nostra vita. Internet non unisce, ma divide. Genera un venefico narcisismo digitale. La sua estrema personalizzazione restringe, paradossalmente, i nostri orizzonti. E divora le fondamenta stesse della democrazia rappresentativa”.

Sinceramente non condivido questi toni. E ancora una volta appare lo spettro di una fondamentale incomprensione di ciò che è veramente determinante, dal punto di vista delle trasformazioni dei modi di vivere, e ciò che invece è solo ausiliario o periferico. O, per dirla con il Nietzsche del Crepuscolo degli idoli, si continua a scambiare effetti con cause.

Il cellulare e internet non uccidono la cultura né l’esperienza ma semmai decostruiscono una certa immagine e una certa costituzione e rappresentazione della cultura e dell’esperienza. La rappresentazione verticale, gerarchica, normativa, in particolare. Quella scolastica e che ha una lunga tradizione, dalle discipline del trivio e del quadrivio alla moderna enciclopedizzazione. Così come, per l’esperienza, contribuiscono a demolire definitivamente quella già abbattuta dagli choc della vita contemporanea tra Erlebnis e Ehrfarung densamente commentata da Benjamin a proposito della Parigi del XIX secolo (è cosa vecchiotta direi…).

Effettivamente tutto questo viene “terminato” dalla rete e dalle nuove forme di accesso alle informazioni. Non mi sto a dilungare: sulle modalità disseminative, rizomatiche e effettivamente degerarchizzate di questo tipo di accessi si è già detto e scritto molto.
Mi interessa di più il versante psicomorale di queste riflessioni che sanno sempre, in maniera un po’ irritante, di o tempora o mores.

Credo si debba essere meno sommari. A parte l’espressione di “folla”, che non so quanto sia sua ma che a me non evoca nulla di particolarmente seducente né democratico, “l’anonimato e la trasparenza come male assoluto” mi pare espressione un po’ eccessiva, savonaroliana, apocalittica.

Se Han guardasse bene la rete (cosa che probabilmente evita visto che se ne sta sempre molto appartato), vedrebbe che il panorama è molto sfaccettato, che accanto all’esercizio dell’autodenudamento, così più pornografico in certa tv spazzatura peraltro, ci sono molte formule per apparire ( e per apparire obliquamente, mascherati, differenti e pluricefali piuttosto che acefali).

In realtà la rete, che poi è sempre un doppio della realtà, è zeppa di zone oscure, di labirinti, di sacche di oscurità. Il selfie è un gioco in voga in questi anni tra i ragazzini ma la rete non è fatta solo dai ragazzini. Come ogni moda tramonterà e si avvicenderà con altre. L’autocelebrazione visiva certo parla della solitudine ma anche del “bisogno di essere visti” in una società che non presta più attenzione a nessuno, non tanto per via della tecnologia ma per via dei suoi ritmi, delle sue necessità produttive, della sua macchina economica.

Effettivamente oggi l’esperienza, in breve, ma anche l’esperienza del sapere, sta mutando molto velocemente. Mentre condivido l’allarme sulla saturazione e sugli effetti di captazione e impoverimento dell’attenzione che l’eccesso di connessioni produce (secondo le note analisi “psicopolitiche” di Stiegler), sono più restio a vedere necessariamente nell’avvento di queste tecnologie un progressivo azzeramento delle facoltà critiche, un appiattimento verso il basso ecc.

Intanto occorre con forza sottolineare ancora una volta, senza nessuna enfasi progressista, diomeneguardi, che comunque oggi circola molta più informazione e per molte più persone. Che questa informazione è più articolata, ha infinite forme comunicative (e non quelle ridottissime e ipercodificate del tempo pre-rete) e che dunque, piaccia o non piaccia, l’accesso è migliorato, aumentato e complessificato. Oggi la scuola per esempio deve confrontarsi con ragazzi che hanno modo di verificare quasi in tempo reale ciò che gli viene detto dai loro insegnanti, il che mi pare, sotto il profilo democratico, un fatto interessante.

Quello che si avverte è comunque che vi sia, specie nelle giovani generazioni più digitali, più conoscenza, più competenza nel ricercare, più differenza. A formarli non sono più solo le istituzioni ma tutto questo mondo di saperi poco normato ma anche straordinariamente ricco.

Si attribuisca la fine dell’umano, più che ai cellulari, -che semmai incrementano la disattenzione sociale hic et nunc, la distrazione, la debolezza della presenza fisica nel mondo, la dissipazione sensoriale-, a un sistema che mira, proprio nelle sue strutture formative essenziali (scuole, uffici, centri commerciali, stage, training ecc.) a depotenziare gli strumenti critici (gli “strumenti umani”), a forsennare con l’incitazione alla competizione quantitativa e performativa, a tartassare con le prove, i test e gli invalsi, a indurre alla vendita esasperata di sé ancor più che all’acquisto.

L’isolamento dell’uomo contemporaneo non è prodotto da internet che, anzi, come dice la parola stessa rete, appare una sorta di compensazione, di farmaco però soltanto generico purtroppo. Che non produce di sicuro condivisione autentica (salvo eccezioni però: molti gruppi solidali nascono anche in rete) ma fornisce almeno un effetto placebo alla totale parcellizzazione e transitorietà dei rapporti. L’isolamento viene da un processo molto determinato e strutturale di frantumazione del corpo sociale perseguito con le trasformazioni del mercato del lavoro, delle professioni, delle politiche di formazione e, certo, anche delle politiche del sapere.

E’ verissimo, come lo stesso Han ha sostenuto nel suo libro migliore, La società della stanchezza, che oggi le persone sono spinte all’autosfruttamento, ma questo non è l’effetto delle tecnologie ma di politiche molto precise che spingono al tutto contro tutti e all’azzeramento di ogni formula di agire sociale orientata autenticamente all’intesa e alla mutualità.

A me pare, senza alcuna velleità di celebrazione naturalmente, poiché mi rendo conto di quanto le tecnologie siano anche avvilenti in molti loro aspetti, che tuttavia non si possa addebitare loro l’impoverimento culturale del mondo. Al contrario direi seppure in forme davvero imprevedibili. E’ chiaro che occorre però riformulare drasticamente l’idea un po’ aristocratica e, ahimé, improponibile, di cultura che un certo modello di sapere intellettuale ci ha tramandato e non si rassegna (comprensibilmente) ad abbandonare.

Inviterei però a guardare con più accuratezza le potenzialità della rete e dei cellulari, ad avvertire la pulsazione di un mondo che proprio a partire dalle interconnessioni può a volte unirsi improvvisamente e produrre “ipergesti” (Citton) fenomenali.

Non credo affatto che le tecnologie siano salvifiche e sono convinto che vadano decostruite attentamente per vedere dove si annida la manipolazione o la strumentalizzazione a fini di asservimento commerciale, di sorveglianza ecc.. Non sono però neanche convinto che siano esse il male assoluto. Temo che questa lettura finisca con il farci perdere il bersaglio autentico. E’ come quando si accusa la famiglia dei problemi dei ragazzi. Si vede davvero il dito e non la luna a mio avviso.

Occorre un’attenzione raddoppiata per i fenomeni sottili, per le differenze. Il mondo è più complicato di un tempo ma non necessariamente peggiore, anche se l’esperienza culturale di un Rilke, di un Benjamin e di altri privilegiati dal talento e dalla sensibilità straordinari forse non saranno più possibili.

giovedì 4 giugno 2015

Il discorso dello psicoanalista capitalista



Mai come in quest’epoca gli psicoanalisti dettano legge. Il povero Lacan si rigirerebbe nella tomba, lui che suggeriva di “fare il morto”, di non prescrivere, di essere la casella vuota che consente al paziente di “fare il giro” senza mai incontrare un soggetto pieno.

Lo psicoanalista francese esortava gli analisti a non ergersi a maestri di verità (non so con quanta buona coscienza ma insomma).

E invece.

La salmodia delle ricette psicoanalitiche è diventata moneta comune del neo-moralismo contemporaneo.
I principali assiomi del “discorso dello psicoanalista” (non quello di Lacan evidentemente ma il suo succedaneo d’oggidì sub specie pedagogica), risultano essere:

maleficazione dell’adolescenza e giovinezza con particolare riferimento alle sue derive narcisiche, rintracciate però ubiquitariamente;

colpevolizzazione del godimento, che da secoli non raggiungeva questo grado di demonizzazione;

individuazione nella latitanza della figura paterna della maggior parte dei disagi del tempo (sub specie dissolvendi, evaporandi et sublimandi);

perorazione della frustrazione e di una “riformata” normatività;

sostanziale colpevolizzazione della “famiglia affettiva” ecc. ecc.

In realtà, sintetizzando le forme del suo discorso, esso non appare molto differente da quello delle pedagogie morali dei secoli passati, in particolare di ispirazione religiosa. In fin dei conti essa ci ripropone, con lievi eccezioni, il classico bagaglio dei vari catechismi, la sacralità rinnovata dei vincoli parentali, il valore incontestabile del lavoro, degli obblighi di studio e così via.

Non c’è che dire, la psicoanalisi, diciamo certa psicoanalisi (poiché si deve pure mettere in salvo coloro che dal suo interno si battono contro questa impressionante deriva), che sembrava ai suoi esordi aliena dal moralismo, addirittura scandalosa, di fondazione laica e positiva, è la nuova “religione del nostro tempo”, per dirla con Pasolini.

Ad essa si abbeverano i nuovi sacerdoti della retta via, che non necessariamente lo sono per mestiere ma semplicemente ormai assolvono questo compito -essendo in via di estinzione i suoi storici artefici-, dai pulpiti più aggiornati del nostro talk-show planetario. Gli altari dei giornali, i sagrati di certe trasmissioni televisive dove possono predicare senza timore di essere troppo contraddetti (da Fazio, dalla De Gregorio, dalla Gruber), i cenacoli delle loro associazioni di afflitti, le sacrestie di certe università servili, i chiostri di certi festival del nulla in continua espansione.

Molti anni fa ho creduto nella psicoanalisi, mi sono avvicinato ad essa proprio perché vi immaginavo un sapere coraggioso, capace di penetrare gli strati più oscuri della nostra esperienza senza il timore di nulla, amavo il suo linguaggio sessuato, la sua componente crudele, il suo gusto di sconvolgere i pregiudizi.

Ma il tempo è passato, oggi i suoi esponenti più in vista sermoneggiano accanto ai tutori dell’ordine, fanno buona mostra del loro riduzionismo guardandosi bene dal diagnosticare la genesi dei problemi dove davvero si trova (nei meccanismi del potere economico che giustifica loro stessi e i loro discorsi), si pavoneggiano dell’aver ridotto un sapere straordinario e rivoluzionario, per molti versi, in una catechesi per tutte le stagioni.

Ma si sa, il discorso dell’analista capitalista chiede risultati immediati, rapidi, il godimento del successo tutto e subito, la spendibilità e la visibilità massima. Ça va sans dire.

Da molto tempo, si capirà, cerco altrove l’alimento per pensare e vivere.

mercoledì 3 giugno 2015

Giovane e bella di François Ozon : il potere della bellezza



Questo film di François Ozon mi ha colpito. Giovane e bella intendo dire. Ozon mi aveva già saputo sedurre, sia in film più feroci come Gocce d’acqua su pietre roventi, sia in film incantati e impossibili come Ricki.

Qui tuttavia l’argomento tanto scabroso è condotto a mio giudizio in modo esemplare e con un tratto fondamentale e che lo differenzia da tanti film sull’adolescenza: nessuno giudizio e nessuna lagnosa sottolineatura, quando non morbosa, del malessere tante volte imputato a quell’età. Niente di tutto ciò: che liberazione!

Che cosa ci viene mostrato?
Un’adolescente bellissima, Isabelle, una Kore, che sceglie di divenire una prostituta, a Parigi.
Un tema che scuote molte sensibilità, specie di questi tempi, in cui parrucconi e parruccone dello psico-set si sono accorti che esiste un fenomeno che si chiama prostituzione giovanile, solo perché per la prima volta ha toccato, con grande diffusione mediatica, anche le classi abbienti (mentre prima, come è noto, riguardava i poveri e gli schiavi d’ogni dove).

Ma come ci viene raccontata questa transizione? La trasformazione di Isabelle in Lea? Anzitutto la ragazza, diciassettenne, ci viene mostrata, all’inizio, mentre è in vacanza con la famiglia, attraverso lo sguardo del fratellino. La prima inquadratura ce la mostra dall’alto, attraverso la lente di un binocolo, mentre seminuda prende il sole sulla spiaggia. Immagine perturbante ma anche molto istruttiva. Anche a giudicare dal seguito, e cioè dalla pervicace volontà del fratello di spiarla, questa sorella misteriosa e affascinante, arrivando a sorprenderla, senza essere visto, mentre nella sua camera si masturba.

Ozon sceglie questo punto di vista per presentarci Isabelle e credo che voglia suggerirci proprio di accomodarci in questo punto di vista, quello del fratellino, nella sua curiosità, nella sua eccitazione, nella sua ambigua innocenza, nella sua morbosa voglia di penetrare quell’universo tanto vicino eppure tanto irraggiungibile. Finalmente una visuale non pregiudiziale, una visuale accogliente e, soprattutto, eroticamente complice.

Se noi riusciamo a restare ben ancorati a questo sguardo allora la vicenda di Isabelle avrà molto da raccontarci, mentre non appena cominceremo a spostarci negli occhi degli altri personaggi adulti, o peggio di qualche diagnosta tra il pubblico, il rischio sarà sempre di soccombere ai pregiudizi e alle solite banalità psicologiche.

Isabelle, che ha un’avventura con un giovane tedesco nel corso della vacanza, è palesemente annoiata dal ménage famigliare. Il suo scopo è superare, con un giovane tedesco a disposizione e con un certo cinismo, la prova della perdita della verginità, dove la vediamo sdoppiarsi e guardare dall’esterno questo evento che non sembra coinvolgerla sotto il profilo sentimentale né fisico. Sbrigare questa pratica è un’operazione che le consente di inoltrarsi in un altrove che evidentemente la sollecita molto di più.

Ma attenzione. Qui la Kore non è la sprovveduta vispa Teresa che passeggia per i prati candida e ignara e si china, per la gioia degli psicoanalisti, a cogliere un narciso. Niente di tutto questo. Isabelle è una Kore decisa e determinata, che, al momento dell’incontro con un messaggero di Ade, l’uomo che le offre denaro in cambio di sesso, decide di inoltrarsi da sé negli Inferi e si trasforma per l’occasione. Il suo destino è al tempo stesso determinato dal Kairos, l’incontro occasionale, ma soprattutto dalla sua sensibilità già scaltra, pronta ad avvistare il fascino prepotente del mondo infero.

Un mondo infero che però, giustamente, Ozon ci propone nella sua veste contemporanea, lussuoso, ovattato, labirintico, accogliente e seducente. Quella dei grandi alberghi parigini. Isabelle in veste di Lea, sale agli inferi, mediante le scale mobili che la strappano al caos metropolitano e con la grazia di una ninfa che sa indossare perfettamente l’abito del desiderio, si inoltra verso lo sconosciuto. Che è proprio Lo Sconosciuto, un uomo adulto, o addirittura un vecchio, ogni volta diverso, al quale carpire la misura della propria desiderabilità ma al tempo stesso espugnare in un tempo estremamente breve il segreto del godimento.

Kore seduce Ade, non il contrario. E nessuna madre Terra, incasinata come è nell’ambiguità un po’ squallida dei traffici frettolosi degli amanti, può intuire il potere né la misura della figlia Kore.

Ozon fortunatamente ci risparmia ogni moralismo, evita di mostrarci una adolescente che finisce divorata dal drago che ha osato sfidare. Tutto al contrario. Quello che si disvela, in un climax che è al tempo stesso prodigioso e ricco di humour, è la progressiva padronanza del potere in dote fin dall’inizio alla giovane ninfa. Potere che lei stessa non sa, ancora non ha potuto sondare nei suoi lati veramente imprevedibili ma che ben presto saprà amministrare nei confronti di tutti, uomini e donne, all’occorrenza ponendoli di fronte alla loro ipocrisia e alle loro voglie inconfessate. Così accadrà con il patrigno, coinvolto in poche mosse nel gioco della seduzione semiincestuosa, interrotta solo dall’intervento adirato di una Era più stupefatta e impreparata che gelosa. Ma allo stesso modo allo psicoanalista, subito inchiodato da Isabelle che gli ricorda maliziosamente che i suoi clienti avevano la sua stessa età. E la madre stessa, posta di fronte al suo tradimento, scorto dalla ragazza dietro le quinte di una rappresentazione teatrale, ma ancor più di fronte al desiderio, forse latente, di essere anche lei “puttana”.

La ragazzina è forte e decisa, sta vivendo la sua avventura, perché di questo fondamentalmente si tratta, un’avventura nel tempo in cui l’avventura sembra impossibile. Avventura in ciò che delicatamente confiderà allo psicoanalista, il piacere dell’attesa, l’inoltrarsi negli alberghi, il lusso, l’incertezza dell’incontro, l’adrenalina della ripetizione, dell’immaginazione sovranamente sollecitata.

Ozon ha anche la cura di sollevarci dal dubbio che Isabelle, come vorrebbe certo sociologismo che non va per il sottile, lo faccia per denaro, o per le borse Louis Vuitton. Il denaro si accumula intatto nel suo armadio. Nessuna spesa. Isabelle-Lea sceglie di essere puttana per altro che non sia il guadagno o perfino il godimento dissipatorio in cui solitamente sociologi e analisti si rifugiano in mancanza di fantasia.

Giovane e bella è Isabelle e in fondo quello cui assistiamo è il mistero della bellezza, del potere che assegna a chi ne è portatore ma anche del suo peso, della sua complessità, del suo dolore. Niente angoscia della bellezza però in Isabelle, niente spalle curve o abbrutimenti adolescenziali. No, piuttosto l’esplorazione, portata all’estremo limite, del suo potere. Potere di procurare dipendenza, di dominare, potere di uccidere.

Ciò che forse neppure Isabelle-Lea può immaginare, nel suo impeto avventuroso e ribelle, è che la sua bellezza possa uccidere. E non solo metaforicamente.
In fondo al labirinto che la nostra eroina perlustra senza timori, anche lei incontra il suo minotauro. Un essere dolente e malinconico, come forse anch’ella è, nella mirabile e unica consapevolezza che giovani e anziani talora hanno. Un anziano che di lei si innamora, forse proiettando nella sua bellezza quella di una moglie che tale doveva essere stata al loro inizio.
Un anziano delicato e gentile, che riesce, forse il solo, a sciogliere un poco la durezza della sua armatura amazzonica. La guerriera con lui un poco accetta il gioco erotico, la seduzione, e perfino il piacere. Il dono del piacere di lei coincide con la (buona) morte di lui, che forse proprio questo cercava, chiudendo il circolo di una vita che sembrava non poter prescindere dal tributo irresistibile alla donna e al suo magistero erotico.

Questa è la vera cesura nel viaggio agli inferi (inferi di cui andrebbe rivisitata l’opulenta necessità, ben contemplata nella duplicità Ade-Pluto). Isabelle deve comprendere il potere della sua bellezza anche dove sembra irriconoscibile e incomprensibile.
Occorre tempo, occorre una sosta, dove tuttavia la vediamo davvero padrona del suo mondo, il cui squallore piccolo-borghese non sembra all’altezza della sua caratura. Non sarà l’apparato psicosociale ordito da questo contesto a poter riparare la ferita. Niente affatto.

Anche in questo Ozon, fedele allo sguardo poetico, intuitivo, amante che ha scelto fin dall’inizio, ci risparmia la caduta, che sarebbe stata fatale, nello psicologismo quotidiano.
Sarà un’altra bellezza, il potere di un’altra bellezza, una ninfa-stella come la moglie del cliente, che però è anche, -il cinema qui confonde le carte secondo me-, Charlotte Rampling. Una stella-ninfa che intercede per lei. L’incontro di queste due figure, nella cornice di un letto, nella delicata e magica manipolazione del viso che la Senex procura alla Puer, nel sonno indotto, una sorta di trance erotica, nella condivisione del desiderio (“anch’io avrei voluto farmi pagare qualche volta…” le confida la donna), è un incontro salvifico.

Non terapia, non presa di coscienza, non sanzione. La Isabelle che rinasce nella stanza d’albergo dove ha consumato piacere, morte e resurrezione è semplicemente una donna che ha espiato la colpa della bellezza attraverso l’assoluzione di un’altra donna, colei che sa per esperienza di cosa si tratta. Iniziazione, se si vuole, passaggio di testimonianza, magia rituale.
Così si scioglie il mistero della bellezza della Kore che ritroviamo nell’ultima scena in cui finalmente non è solo l’apparizione della ninfa con il riflesso perduto in uno specchio (martellante evocazione della duplice Isabelle/Lea). E’ lei (forse Isabellea?) a vedersi ora nello specchio, a guardarsi e a poter assumere tutto il suo potere. Ozon ci lascia rapiti nel suo mezzo sorriso rivolto in avanti, rivolto oltre, mentre Françoise Hardy, cantora ormai senza tempo della meraviglia adolescenziale, intona “Je suis moi”.

mercoledì 15 aprile 2015

La "scuola diffusa" oltre la scuola



Bisogna smettere di pensare alla vita dei bambini rinchiusa dentro una scuola, una casa, un oratorio. Le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi devono ricominciare a circolare nel mondo, e allora il mondo prenderà un nuovo ritmo, più armonico. Quando i bambini, le ragazze e i giovani ricominceranno a essere presenti nel mondo, anche noi smetteremo di girare a vuoto. Liberare loro dalla gabbia significherà liberare anche noi.

Immaginiamo una non-scuola come quella che oggi alcuni chiamano “scuola diffusa” (Campagnoli tra al.). Cosa potrebbe essere? Seguiamo Campagnoli:

Un luogo minimale, “un edificio-base, che fungesse da manufatto simbolico, una specie di “portale” di ridotte dimensioni, ubicato in una parte significativa e centrale della città, con servizi amministrativi e luoghi di riunione non specializzati; esso potrebbe rappresentare la “stazione” di partenza verso le “aule” virtuali e reali sparse nel territorio, un luogo di “rendezvous” all’inizio della giornata di studio” (http://www.educationduepuntozero.it/tecnologie-e-ambienti-di-apprendimento/scuola-diffusa-provocazione-o-utopia-4031005060.shtml).

E’ un buon punto di partenza. Ma è un punto di partenza che impone un drastico rovesciamento perché, appunto, le aule svanirebbero nella loro accezione consueta e i luoghi di apprendimento sarebbero altrove, nel territorio fuori dalla scuola. Ogni giorno i ragazzi e le ragazze, le bambine e i bambini, avrebbero un carniere di “esperienze” da vivere “là fuori” e non “qui dentro”. Campagnoli si preoccupa dei trasporti: “Per le scuole di livello base o intermedio, sarebbe sufficiente concepire quotidianamente un “orario di prossimità”, con un sistema di trasporto integrato che consentisse di trasferire gli alunni, anche in continuità verticale (negli stessi luoghi e laboratori studenti dalle elementari alle superiori, a volte anche insieme!), ogni giorno in un posto diverso a seconda delle necessità di apprendimento e di applicazione.”

Va bene, soprattutto per i bambini più piccoli ma poi: immaginiamo che uno degli elementi da apprendere sia proprio spostarsi nel territorio, autonomamente.
Immaginiamo più forte: non classi che si spostano ma piccoli gruppi, bande di ragazze e ragazzi che esplorano, setacciano, assistono, si offrono come volontari ecc. ecc.
Questo non può accadere spontaneamente, è ovvio, occorre un lavoro di preparazione, di sensibilizzazione capillare ma poi, progressivamente potrebbero essere le ragazze e i ragazzi stessi a effettuare sopralluoghi, a negoziare partecipazioni, a ottenere possibilità di coinvolgimento.

L’area di spostamento potrebbe essere vicina e adiacente al “portale” (io però suggerirei, secondo le mie inclinazioni, il termine di “radura”), per le bambine e i bambini più piccoli: i campi, i laboratori, le officine, la stalla ecc. nel raggio di poche centinaia di metri, da raggiungere accompagnati, sperimentando piano piano momenti in cui si possa muoversi ed esplorare anche soli. Ma progressivamente, con il passare degli anni, l’area dovrebbe allargarsi sempre di più, finchè le ragazze e i ragazzi più grandi, autoorganizzandosi, possano spingersi molto più lontano, prendere treni, forse aerei, per visitare quel teatro, quella compagnia circense che li affascina, l’atelier di quell’artista, quell’azienda che produce cibo di qualità, quel villaggio in India dove donne analfabete costruiscono e installano pannelli solari.
Il mondo, a differenza della scuola, è grande, inesauribile, e vivo. Il solo percorrerlo, attraversarlo, non blindati su un autobus, ma liberi, in gruppo, è una straordinaria esperienza che comprende operazioni organizzative, interlocuzioni, abilità, inventiva, spirito d’avventura, imprevisti, e molto molto divertimento.

Il grillo parlante come sempre chiede dei programmi, dei curricoli, degli esami, ahimé. Perché ragiona ancora come un gerarca e un secondino.

I programmi in questa ipotesi sono in divenire e, soprattutto, sono un oggetto di negoziazione comune. Possono cominciare per svilupparsi per grandi “aree”, per focus, per temi, per problemi. Spesso connessi con il territorio, ma anche con la sensibilità e le domande profonde di bambine e ragazzi: l’amore, il lavoro, il lutto, la malattia, la violenza, la droga, la comunicazione, lo spettacolo, il denaro ecc. ecc.

Mille possono essere i perni intorno a cui far ruotare occasioni di esperienza che anzitutto prendono spunto dal mondo, visitando luoghi di cura, andando a leggere e ricercare nei luoghi dove un certo artista o scienziato ha vissuto, magari a pochi passi da casa, o più lontano, se interessa, entrando nell’osservatorio astronomico come nella base aerea, nel bosco, nell’ambulatorio come nella palestra di arti marziali, nella trattoria come nel laboratorio fotolitografico, nella fabbrica di bevande come nella sede degli alcolisti anonimi o nella chiesa ortodossa.

Si può andare avanti all’infinito a individuare punti di irradiazione di possibili itinerari di ricerca, ma anche di esperienza vera e propria, di osservazione come anche di partecipazione. Per tornare ogni tanto alla “radura” e condividere con gli altri, perfino con gli adulti (!), ma anche semplicemente compilando diari, tenendo riunioni dove capita, riflettendo su qualcosa di finalmente vivo e vissuto.

Non ci saranno più curricoli in senso tradizionale ma articolazioni di esperienze, per approfondimento, per espansione, per composizione e associazione. Sul tema del lavoro si potrebbe visitarne ovviamente i luoghi, interagire con chi vi opera, con chi dirige, con chi lotta per migliorarvi le condizioni, ma poi anche con chi resta fuori, con chi studia sul senso del lavoro e così via, dal vivo, in azione. Poi riflettere, mettere a fuoco, immaginare.

Il ruolo del vecchio insegnante dovrebbe modificarsi radicalmente, non più colonizzare le menti con il suo sapere, ma cercare chi e cosa possa innescare, nel mondo, quello vicino e quello lontano, occasioni di apprendimento, di ricerca, di interrogazione, di connessione.

Nessun esame finale, solo percorsi che progressivamente divergono, inevitabilmente. Occorre immaginare che ragazze e ragazzi con il tempo mettano a fuoco obiettivi sempre più precisi, desiderino alimentare passioni e vocazioni sempre più specifiche e che quindi i loro itinerari si stacchino da quelli degli altri, si riuniscano con altre persone in altri luoghi, vadano e vengano secondo la necessaria oscillazione che si sperimenta in quegli anni.

Ragazze e ragazzi affascinati dal volontariato oppure dal mondo della moda, che poi, vivendo e vedendo e sperimentando, cambino idea e si scambino i ruoli e poi ancora, divergendo continuamente, sfruttando tutte le opportunità.

Gli adulti tutti diverrebbero insegnanti ma in un senso molto più debole e più intenso al tempo stesso. Ognuno è professore di qualche cosa e sarà ogni situazione specifica a rendere possibile una trasmissione delle conoscenze. L’idraulico potrà commentare le sue operazioni di riparazione allo stesso modo di un ingegnere o di un organizzatore di eventi.

La presenza dei ragazzi, che dovrà essere agevolata e talora prescritta ma che presto o tardi sarà accolta come una benedizione, fungerà anche da meccanismo di interrogazione, di metariflessione continua per tutti, inducendoli a essere più sensibili, a riflettere su ciò che stanno facendo, forse anche a entrare in crisi. Le domande pungenti e intuitive dei ragazzi e delle ragazze obbligheranno tutti a una maggiore consapevolezza. La loro stessa presenza nel mondo, renderà inevitabilmente tutti più attenti, più cauti, il traffico dovrà rallentare e forse le amministrazioni si decideranno a creare piste ciclabili o ad abbassare la velocità in maniera decisa nei centri abitati, per permettere a bambini e ragazze soli di circolare, di muoversi con minor rischio.

I giovani hanno sensibilità per le ingiustizie, per i danni portati all’ambiente, alle cose. La loro presenza sarà un deterrente, un fattore di denuncia continua e loro stessi, grazie alla loro presenza creativa, caparbia, alimenteranno un precoce senso di responsabilità, altro che imparare la cittadinanza a scuola. Essere presenti nel teatro del mondo sarà un immediato esercizio di cittadinanza e di emancipazione. Per tutti.

Un’esperienza di questo tipo, di cui si possono cominciare a immaginare percorsi, vie, articolazioni, sbriciolerebbe la gabbia della passività e dell’impotenza, della noia e del rifiuto della cultura e invertirebbe verso il desiderio di sapere la sensibilità dei bambini e degli adolescenti.

Chiaramente gli adulti dovrebbero anche aiutare a selezionare, dovrebbero impiegare le loro capacità per indicare punti strategici, scrigni particolarmente ricchi di stimoli. Potrebbero poi proporre momenti di approfondimento, incursioni in territori meno visibili, meno a portata di mano, diventare consulenti per dare corpo a visioni, intuizioni. Il loro lavoro sarebbe molto più stimolante e anch’essi sarebbero portati a investigare, allargare i propri orizzonti, aggiornarli continuamente.

La scuola diffusa non sarebbe più “scuola” ma tempo di esperienza totalmente ripensato, che dovrebbe progressivamente passare nelle mani dei protagonisti stessi, per assumerlo, deciderlo, programmarlo secondo le loro esigenze e le loro sensibilità. Non è scontato ma è molto probabile, se effettivamente i percorsi condurranno a sviluppare passioni. Sono le passioni, come sosteneva Fourier, che possono indurre allo sforzo.

Non si tema che questo tipo di rivoluzione produca disinteresse e derive pericolose. E’ semmai vero il contrario. E’ la scuola deprimente e deprivante che induce al vuoto e alle passioni tristi. I bambini, le bambine, i ragazzi e le ragazze sono normalmente vivi, lo si vede bene non appena gliene si fornisce qualche opportunità, fosse anche solo quella di una gita in montagna.

Occorre solo ribaltare completamente quel dispositivo di pena e di demotivazione che è la scuola, aprire la gabbia, metter in circolazione le energie, i desideri, le possibilità.

E allora la vita di ragazze e bambini, di ragazzi e bambine tornerà a essere essa diffusa e entusiasta, contagiando tutti, costringendo anzitutto noi a domandarci che cosa stiamo facendo, dove abbiamo perso il bandolo e forse rivelandoci che uno dei più grandi piaceri è anche proprio quello di stare semplicemente con loro, con le loro domande, con le loro idee, nei luoghi di lavoro, fuori da essi, viaggiando con loro, affidandosi a loro, che ancora, sperabilmente, non saranno stati anestetizzati e avviliti come purtroppo molti di noi.


domenica 12 aprile 2015

La libertà vigilata dei cosiddetti minori




Definiti minori quasi universalmente sotto il diciottesimo anno d’età, essi, i minori, restano per tutti quegli anni sottoposti a un regime di libertà vigilata, spesso sconfinante negli arresti domiciliari, sotto il diretto controllo degli agenti che li hanno messi al mondo.

Un tempo, quando le case non avevano ancora porte blindate, le scuole non esistevano e nemmeno gli psicologi, i minori non se la passavano un granché neanche allora, ma presumibilmente trovavano più facilmente il modo di filarsela da qualche parte alla prima occasione, specie se maschi ma anche le femmine, nell’incuria generale, sapevano come sottrarsi.

Oggi, i nostri minori metropolitani o anche semplicemente cittadini, sono ai ceppi. Minori e dunque minorati, perciostesso non in grado di fronteggiare il mondo. Non minori come gli accordi minori, che ci danno un poco di quieta malinconia. No, minori minori. Minori bequadro.

Ed eccoli dunque: un oggetto da trasportare da un luogo all’altro ma sempre sotto scorta. Come prigionieri, qualcuno si incarica di accompagnarli da un luogo di custodia (cautelare) ad un altro. Dalla magione alla scuola, dalla scuola alla piscina, dalla piscina al catechismo, dal catechismo alla magione e così via. Sempre sotto scorta e sempre verso nuove custodie. Guardie giurate (alla loro protezione si intende) sempre presenti.


Un fenomeno questo pervasivo specie se i minori sono molto minori e se il mondo, lì fuori, in virtù del suo scorrere massiccio e indifferente sui binari della compravendita delle merci (che anch’essi stanno per diventare, in virtù del trattamento giudiziario), procede feroce e appunto incurante di loro.

Il trattamento giudiziario si doppia poi all’interno dei luoghi di custodia (cautelare) ( e preventiva), con misure punitive ove si cerchi di sottrarsi alla restrizione. Inoltre i minori sono ivi sottoposti a misure sempre nuove e inesauribili di continua “misurazione” della loro capacità di corrispondere alle attese degli ordini disciplinari in cui vengono iscritti o meglio arruolati senza essere stati pressoché mai interpellati in merito.

Alla scuola, struttura di custodia per eccellenza, in quanto “d’obbligo”, l’interrogazione-interrogatorio e l’esame (istruttorio e probatorio), sono costantemente in atto, affinché la conformazione non abbia a rischiare anche la minima compromissione. E implacabile è sempre sotto osservazione la condotta del carcerato (cui la pena inflitta può essere anche allungata, ove ricorrano gli estremi). A orari fissi egli viene rilasciato solo a nuovi tutori che dimostrino di possedere le credenziali normative per poterlo effettivamente custodire e sorvegliare.

Ogni luogo, compresi quelli del transito (auto o altri veicoli), risultano identificabili come dispositivi restrittivi in cui quasi tutti i comportamenti sono vietati: l’automobile per esempio è un luogo dove spesso il minore viene letteralmente legato ad un piccolo sedile predisposto perché non possa assolutamente muoversi, pressappoco una camicia di forza. Ovvio che questo si fa a scopi preventivi e protettivi.

Nello sport, nella istruzione religiosa o musicale, le forme di custodia risultano altrettanto molteplici e variate e la sorveglianza su eventuali anomalie lascia ampio spazio a indagini che possono poi comportare l’intervento suppletivo di nuove figure tutoriali e ispettive pronte a correggere disturbi ed errori.

E così via, fino alla maggiore età, quando, come è ovvio, il minore, essendo stato definitivamente reso minore e manco a vita, incapace di intraprendere qualsiasi azione in assenza di tutela, si affiderà spontaneamente a nuove protezioni, a nuovi custodi, a nuove misure restrittive, che saranno lì, puntuali, ad accoglierlo, a braccia aperte.

Poi subito richiuse.

Così va la vita dei minori nel tempo della democrazia.

domenica 22 marzo 2015

La nausea



Quanta amarezza in questo tempo…
Ciò che accade in scuole e università, in generale nel mondo della cultura è rivoltante. Nei nostri posti di lavoro, parlo agli universitari, fanno a pezzi gli ultimi residui del senso, del significato, del lavoro creativo. Passano norme ignominiose sulla valutazione della produttività scientifica, si fa a gara per racimolare gradimenti dagli studenti, ci si spintona per intercettare fondi di ricerca cercando in ogni modo di montare in copule improbabili filosofia, antropologia, psicologia con i temi del cibo perché c’è L’expo che è un’enorme mammella da succhiare finché ce n’é convertendo per anni il senso del proprio operare al solo obiettivo economico.

Nausea e schifo…
Dalle commissioni didattiche degli atenei ci fanno sapere che negli esami dobbiamo usare tutta la gamma dei voti, si faccia il piacere, e che si deve controllare bene che nessuno si permetta di studiare su dispense o appunti. Troppi colleghi paiono voler incollare i pezzi del loro nulla con la colla di una qualche nuova forma di autorità, di rigore, di disciplina.
Oggi se scrivi una monografia vale 0 mentre se scrivi un articoletto in inglese su una rivista di fascia XL entri nella hit parade dei cervelli in vendita…
Le tesi devono essere più brevi, più simili ai paper anglosassoni, le ricerche devono essere sempre e solo per obiettivi ratificati da qualche commissione europea (dunque sempre connesse strettamente all’economia), altrimenti non ti danno un soldo.

Tutti pronti a sbavare per pubblicare su un foglio di giornale, a mostrare il culo perché sia per bene manipolato da chi sul suo potere ci costruisce, lui sì, uno straccio di godimento (l’unico godimento che davvero circola, con buona pace delle Cassandre del godimento scatenato: il godimento non dissipa più, accumula semmai, è godimento del potere, qualsiasi potere, anche quello ridicolo del professore universitario che baratta la sua ipotetica identità di studioso con un posto di ricercatore o di dottore di ricerca o un finanziamento qualsiasi).

Vorrei possedere una scrittura nitida e tagliente come un rasoio per poter prendere congedo da questo magma merdoso in cui invece si finisce per precipitare proprio malgrado. Si finisce corrosi dall’invidia, dalle gelosie, dall’unico orizzonte che ad oggi sia percorribile per gratificare di un senso il proprio esistere, sempre più vacuo e indistinto. Unico orizzonte che è quello dell’emergere, in un qualunque modo, dalla schiuma scura e sporca dove quasi tutti annaspiamo aggrovigliati. Emergere anche solo per poco, toccare per un momento, riconoscendo meravigliati il proprio volto estraneo nel suo riconoscimento pubblico, l’appagamento di una riuscita, l’unica che oggi davvero assuma un peso, un valore.

Oppure inseguire oasi, piccole TAZ individuali, magari facendo dei propri figli il perno del proprio riscatto, fin che son piccoli almeno. Ma anche solo in un fare qualsiasi, con l’etica del lavoro risanata secondo lo slogan pietoso del “ben fatto”, beandosi di fare del buon vino o della salsa tradizionale.
Ognuno con il suo successino, cduri quel che duri, pur di rispecchiarsi in qualcosa che sia, magari solo per un attimo, condiviso. E non solo dall’amico (pronto a fregarti) o dal compagno o dalla compagna (fin che c’è).

Le nostre vite son sempre più friabili e leggere, possono essere soffiate via in un baleno da tanto che non hanno più gravitazione, peso, consistenza. Nulla ci garantisce di nulla, vertigine rizomica e perpetuo flusso. Ma si badi, al flusso non ci arrendiamo, pretendiamo di coagulare, di fissare la nostra immagine nello specchio di un compimento, è questa la nostra miseria. Finita la necessità di un significato, invochiamo un compimento qualsiasi, fosse anche soltanto dare la forma a un tipo di pasta o apparire velocemente in un talk-show.

A volte, dialogando con i miei mèntori mi sorprendo a sorridere tristemente, pensando alla gravità delle loro considerazioni, al tormento autentico da cui apparivano abitati (l’ “apparivano” sia concesso al cinismo indefettibile che ci abita…). Dialogo con Rilke o con Etty, o con il vecchio Nietzsche e penso a quanto sembravano poter credere (in ciò che dicevano, che scrivevano). Già, credere in fondo.
Sapere e credere, ancora quello, no: è vetusto e insopportabile. Oppure…
Mi confido con loro, sicuro di (non) essere ascoltato. Almeno ne sono certo. Non con i…i che cosa? Come chiamare la folla in cui si serpeggia e si striscia quotidianamente, con brevi attriti, le figure che per qualche ora, o giorno, o addirittura mese, emergono a striare il tempo di una gamma relativamente costante? Amici? Compagni? Conoscenti?
O forse proprio nemici, concorrenti, competitori? Siamo tutti in competizione. Non puoi veramente fidarti di nessuno, di nessuno. Nulla più ti appartiene e tu non appartieni più a nulla.

Vertigine…. La vertigine di questa compiuta inconsistenza, dove puoi dire tutto e tutto è niente, ovviamente. Dove galleggi tronfio su un social network se in un giorno hai spinto fuori più post o tweet, magari raccogliendo l’approvazione di un piccolo manipolo di confermatori, a loro volta sospinti dal bisogno di essere confermati da te il giorno appresso.
La nostra volatilità è assoluta. L’uomo è finito? No, solo ora sappiamo che non c’è mai stato. L’infinita e grottesca buffonata di cui parlava Shakespeare non è mai stata così patente, così esplicita, così letterale. Basta con i panneggi, con le tragedie, con le grandi recitazioni, (altro che narrazioni)! Questo siamo noi, un grande bluff che anela a un attimo di riconoscenza.
Pietosi e fragili, infinitamente deboli e paurosi, animaletti cui è stata inflitta la gogna di sapersi, almeno in parte, e perciò dannati ad libitum…
Ora possiamo guardare senza veli la nostra miseria. Ma ancora insistiamo, vogliamo un attimo di gloria, ancora!

Sarebbe meglio accettare, zittirsi e assumere fino in fondo quel poco o nulla che siamo, ritrovando lo stimolo a far “social catena”, per sorreggerci, con compassione, con umiltà, insieme a tutto, animali, pattumiere e moribondi vegetali. Una sana e prolungata purga a quella tracotanza che ancora vuole esibirsi, con un pubblico indifferente.

Ho scoperto recentemente che c’è chi sceglie come fidanzata una bambola (di materiali che simulano perfettamente la pelle umana…). Forse è quella la soluzione: tanto vale riempire i teatri, quelli della nostra vita, di manichini, anche di cartone, come già accade per la televisione, dove chi è guardato è solo il pretesto per dormire, anestetizzarsi o il bersaglio di tutto il possibile dileggio e di ogni villania.
Nausea, rabbia e malinconia.

martedì 20 gennaio 2015

Perdere l'anima: il successo nell'epoca ipermediale




Una breve e per forza di cose schematica riflessione sul successo.

E’ di grande evidenza che oggi (come peraltro anche prima dell’avvento del grande circo multimediale ma in forme diverse), il successo, la visibilità e il riconoscimento pubblico siano tra le mete più agognate della giostra sociale. Non solo per corrispondere, anche se è fondamentale, al ben noto “desiderio di essere desiderati” che tale risultato implica, ma anche per motivi di ordine materiale e di natura più letterale.

Vano sarebbe soffermarsi sull’ovvia ricca messe di doni che il successo porta con sé. Qualcosa di così remunerativo che consente di comprendere bene perché infatti la maggior parte, se non la totalità di coloro che lo conseguono, non riescono più a separarsene, ad ogni costo, avendo sviluppato rapidamente una vera e propria dipendenza. I casi sono sotto gli occhi di tutti. Non esiste praticamente pentimento sulla via del successo.

Al successo si può giungere per molte vie, alcune casuali e fortuite, che spesso generano dei successi temporanei (come i reality, i talk ecc.), e che spesso peraltro conducono a cadute tragiche seguite da depressioni, tossicodipendenze ecc.

Altre più graduali e sicure, specie nel caso del mondo dello spettacolo (attori, cantanti, conduttori ecc.), per assicurarsi le quali spesso a valere è un effettivo talento, o meglio il gradimento diffuso del talento, dunque la “popolarità”. Tali percorsi, talora anche molto lunghi e accidentati, conducono a un successo meno transitorio, che solitamente decade con l’età ma non necessariamente. Anche qui tuttavia, non si viene meno ad un certo continuo restyling, un ‘opera di accurato “adeguamento” del proprio profilo ai gusti del pubblico e l’interdetto a ogni eccesso di “differenza”.

Vi è poi il caso dei giornalisti, oggi campioni della popolarità di un tempo totalmente arroccato sull’istantaneità e sul breve termine, che tuttavia debbono dimostrare una certa attitudine di assertività e presenza, debbono possedere un eloquio originale, dire cose nuove senza però eccedere in trasgressione. I casi sono numerosi.

Più specifico e più singolare, oltre che inquietante, è il caso degli intellettuali. Da noi un grande apripista, in questo settore, fu Francesco Alberoni già molti anni fa. Di lui il meno che si possa dire è che, del suo potenziale talento di intellettuale radicale fece ben presto un falò, preferendo di gran lunga diventare un vero e proprio caposcuola nell’arte dell’annacquamento, della divulgazione e della svendita delle idee a padroni sempre più remunerativi e capaci di fornire visibilità e fama. In questo caso la perdita dell’anima, posto che mai essa abbia avuto sede in lui, è acclarata.

Su questa via si sono poi accodati in molti, con gradi diversi di prostituzione intellettuale ma sempre con l’obiettivo di emergere dall’oscurità accademica o professionale, di cavalcare una visibilità remunerativa che consentisse di diventare allo stesso tempo influenzatori e star. E di riempire possibilmente rapidamente il proprio portafogli e il plotone dei fan. All’inizio i lidi più agognati furono soprattutto i giornali. In seguito soprattutto le televisioni, vere e proprie catalizzatrici e moltiplicatrici del successo.

Influenzatore si diventa naturalmente a patto di accettare di essere potentemente rimodellati dai mezzi della diffusione. E’ un assioma banale ma inoppugnabile. A questo scopo ci si può affidare a consulenti specializzati che, a caro prezzo, “popolarizzano” a patto di cedere ad ogni richiesta di rimaneggiamento che riguardi il linguaggio, i toni, le idee (che devono essere adattate al grande pubblico), di sicuro l’immagine (rielaborata in funzione della vendita).
Naturalmente ogni trionfo ha i suoi prezzi, e nel caso di quasi tutti costoro, lo scadimento qualitativo della loro ricerca, il tono elementarizzato delle loro argomentazioni e soprattutto la levigazione progressiva di ogni accento di eccessiva “diversità” o estremismo sono indispensabili.

Beninteso, si può essere prescelti dal mercato editoriale e mediale anche e proprio in quanto “outsider” autentici (almeno fino al momento dell’assunzione nell’eden mediale), e si pensi a fenomeni come quelli di Busi o di Mauro Corona o altri, ma a patto poi di reggere costantemente la maschera e di non discostarsene troppo, perché la regola del mondo dello spettacolo rimane quella di un buon grado di prevedibilità.

Il successo arride dunque ai “fenomeni”, ai “mostri” da una parte e agli adattabili dall’altra.
Prezzo unico del viaggio, non procrastinabile: perdere l’anima e la faccia. Si badi, l’anima, come intimità propria che viene inevitabilmente cancellata (questo è il prezzo che deve pagare ogni moderno Faust), e la faccia, sostituita poi definitivamente da una maschera, che deve rimanere sempre identica, talvolta persino nel costume (la camicia aperta, quella bianca con cravatta, la terribile condanna alla stessa pettinatura o alla stessa barba incolta). Di volto, come manifestazione inconfondibile della propria unicità, mai più neanche a parlarne.

Tutto questo è sicuramente vecchio e insopportabile per un’epoca che ha già dimenticato i Benjamin, i Warhol e i MacLuhan (e il mito). Comunque è ciò che si mostra intorno a noi e che ci riguarda, tutti.

domenica 4 gennaio 2015

La scuola è una gabbia



La scuola è una gabbia. Una gabbia molto efficiente. Una gabbia a molti livelli, con strutture di separazione, gerarchizzazione e soffocamento pervasive e capillari.

La gabbia scolastica è tale perché bambine e bambini e ragazze e ragazzi devono essere sottratti al fuori, alla libera circolazione e alla libera esperienza. Bambine e bambini e ragazze e ragazzi devono essere deportati in massa, ogni giorno, molto presto, allo scoccare dell’ora del lavoro totale, e fino a che l’ora del lavoro totale non termina. Lì sono messi ai ceppi dell’immobilità e della passività, per anni e anni, fino a che non siano pronti per essere a loro volta caricati nel ciclo del lavoro totale.

La gabbia agisce in modo preciso e indefettibile.

Essa è ben visibile nelle classi, celle obbligatorie, chiuse e separate, dalle quali si può uscire solo con un permesso o quando l’orario di segregazione finisce. Le classi prevedono numeri fissi di compagne e compagni sezionati in orizzontale, tutti della stessa età. Un tempo erano sezionati anche per genere, tutti dello stesso sesso (almeno biologico).

Nelle classi penetrano gli agenti dell’insegnamento, isolati e fungibili al bisogno, essi stessi ben divisi per categoria disciplinare, che debbono rispettare accuratamente. Perché nella gabbia il sapere penetra a sua volta sezionato in celle di conoscenza, ognuna ben separata dalle altre, in modo che mai si abbia del sapere un’idea complessiva e in modo tale che l’ideologia complessiva di un acculturamento siffatto, devitalizzato, separato rigorosamente dal reale e deprivato di ogni armonia e integrità, possa funzionare a dovere. Un tale sapere sarà immaginato nella sua cacofonica e geometrica figura a celle isolate e non comunicanti, imago stessa dei mestieri alienati che ab initio ognuno di coloro che passa attraverso la gabbia, deve interiorizzare.

La gabbia è visibile nelle procedure, nei fogli quadrettati e a righe, nella struttura delle aule, nei banchi, nelle sedie, negli apparati di valutazione, con schede sempre più simili a gabbie e valutazioni rigidamente sezionate e gerarchizzate.
La gabbia si apre sull’aperto solo a patto che l’aperto sia stato previamente ingabbiato e sezionato. All’esterno si esce solo costruendo un canale di comunicazione tra una cella della gabbia e una cella del mondo esterno, esso stesso in larga misura edificato secondo il modello unico della gabbia. Null’altro vi deve filtrare. Al ritorno dal fuori bisogna compilare relazioni che ingabbino l’esperienza vissuta e la rendano misurabile e valutabile, secondo la logica ferrea della quantità che domina incontrastata nel mondo della gabbia.

L’esperienza deve sempre essere castrata e vanificata. Ogni angolo della gabbia è sotto controllo e nulla vi sfugge, se non per distrazione degli agenti del controllo. Ogni comportamento non a norma è sanzionato. Presto c’è da attendere l’ingresso di telecamere a circuito chiuso in modo che nulla più possa essere nascosto all’occhio della disciplina.

La gabbia è al lavoro nella censura e ripartizione dei sensi di bambine e bambini e ragazze e ragazzi, che devono funzionare sempre e solo in maniera separata. Vista e udito dominano totalmente gli altri sensi, considerati inaffidabili e ambigui, troppo corporei, poco suscettibili di essere comparati e parametrati. L’integrità di ogni esperienza, che si misura sulla globalità percettiva e sull’investimento dell’intera persona, mente, anima corpo e emozioni, è invariabilmente sabotata e scissa, secondo la legge assoluta della gabbia.

La gabbia è un luogo dal quale non si può uscire. Bambine e bambini e ragazze e ragazzi vi sono rinchiusi perché solo il loro cervello possa esservi esercitato a interiorizzare le forme scisse e separate del dominio e perché incorpori, in virtù della disciplina ascetica, sessuofobica e ripetitiva del lavoro scolastico, il ritmo del lavoro totale, il suo non senso, la sua inamovibilità. In una parola il suo essere l’unico orizzonte possibile.




Occorre far saltare la gabbia, puntando a far esplodere a uno a uno tutti i meccanismi operativi che la strutturano e che rendono impossibile qualsiasi esperienza autentica e soprattutto degna della vita, unica e irripetibile, di bambine e bambini e ragazze e ragazzi, dei loro desideri, delle loro attitudini, della loro singolarità.

Occorre far saltare la chiusura, perché bambine e bambini e ragazze e ragazzi possano nuovamente circolare nel mondo, imponendo la loro misura e la potenza della loro insubordinazione.

Occorre far saltare le scissioni disciplinari, perché ogni cosa che si impara sia integra come lo è nel mondo, frutto dell’intersezione di saperi diversi e di informazioni e tecniche che travalicano di gran lunga ogni ripartizione.

Occorre far saltare le procedure oppressive della valutazione perché ogni cosa imparata sia valutata solo in base a come si rende capace di incrementare e intensificare l’esperienza vitale alla prova dei fatti e del tempo.

Occorre far saltare le aule, i sezionamenti orizzontali, affinché le diverse età, i sessi, le forme si intreccino e si scambino nella proliferazione ed estensione del campo d’esperienza.

Occorre far saltare la gerarchizzazione dei sensi, perché la pelle, la carne, il movimento, il piacere possano tornare ad essere la materia prima di un mondo finalmente corrispondente alla grande potenza sensibile racchiusa nell’ età più ricca.

Occorre far saltare la scuola, perché si ritorni nel mondo, bambine e bambini, ragazze e ragazzi e adulti infine, per immaginare una vita che metta il lavoro subordinato e castrato fuori gioco, e il desiderio e il piacere, la fantasia e l’operatività integra e plenaria di tutti, nella loro irriducibile singolarità e differenza, al centro.