la gaia educazione

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lunedì 8 giugno 2015

Digital nightmare?



Le riflessioni che circolano sulla cultura indotta dall’uso di internet e cellulari sono spesso troppo severe a mio giudizio. Non ho ancora letto il testo di Han ma da quello che ho capito stronca un mondo appiattito e reso acefalo da questo tipo di utilizzo.

Ecco la sintesi delle tesi del filosofo coreano riassunte da uno dei nostri quotidiani nazionali : “La folla che tante conquiste ha ottenuto in passato oggi è soltanto uno sterile sciame. Il mondo virtuale ha perso ogni distanza e quindi rispetto. L'anonimato e la trasparenza sul web sono un male assoluto. La cultura della "condivisione" è la commercializzazione radicale della nostra vita. Internet non unisce, ma divide. Genera un venefico narcisismo digitale. La sua estrema personalizzazione restringe, paradossalmente, i nostri orizzonti. E divora le fondamenta stesse della democrazia rappresentativa”.

Sinceramente non condivido questi toni. E ancora una volta appare lo spettro di una fondamentale incomprensione di ciò che è veramente determinante, dal punto di vista delle trasformazioni dei modi di vivere, e ciò che invece è solo ausiliario o periferico. O, per dirla con il Nietzsche del Crepuscolo degli idoli, si continua a scambiare effetti con cause.

Il cellulare e internet non uccidono la cultura né l’esperienza ma semmai decostruiscono una certa immagine e una certa costituzione e rappresentazione della cultura e dell’esperienza. La rappresentazione verticale, gerarchica, normativa, in particolare. Quella scolastica e che ha una lunga tradizione, dalle discipline del trivio e del quadrivio alla moderna enciclopedizzazione. Così come, per l’esperienza, contribuiscono a demolire definitivamente quella già abbattuta dagli choc della vita contemporanea tra Erlebnis e Ehrfarung densamente commentata da Benjamin a proposito della Parigi del XIX secolo (è cosa vecchiotta direi…).

Effettivamente tutto questo viene “terminato” dalla rete e dalle nuove forme di accesso alle informazioni. Non mi sto a dilungare: sulle modalità disseminative, rizomatiche e effettivamente degerarchizzate di questo tipo di accessi si è già detto e scritto molto.
Mi interessa di più il versante psicomorale di queste riflessioni che sanno sempre, in maniera un po’ irritante, di o tempora o mores.

Credo si debba essere meno sommari. A parte l’espressione di “folla”, che non so quanto sia sua ma che a me non evoca nulla di particolarmente seducente né democratico, “l’anonimato e la trasparenza come male assoluto” mi pare espressione un po’ eccessiva, savonaroliana, apocalittica.

Se Han guardasse bene la rete (cosa che probabilmente evita visto che se ne sta sempre molto appartato), vedrebbe che il panorama è molto sfaccettato, che accanto all’esercizio dell’autodenudamento, così più pornografico in certa tv spazzatura peraltro, ci sono molte formule per apparire ( e per apparire obliquamente, mascherati, differenti e pluricefali piuttosto che acefali).

In realtà la rete, che poi è sempre un doppio della realtà, è zeppa di zone oscure, di labirinti, di sacche di oscurità. Il selfie è un gioco in voga in questi anni tra i ragazzini ma la rete non è fatta solo dai ragazzini. Come ogni moda tramonterà e si avvicenderà con altre. L’autocelebrazione visiva certo parla della solitudine ma anche del “bisogno di essere visti” in una società che non presta più attenzione a nessuno, non tanto per via della tecnologia ma per via dei suoi ritmi, delle sue necessità produttive, della sua macchina economica.

Effettivamente oggi l’esperienza, in breve, ma anche l’esperienza del sapere, sta mutando molto velocemente. Mentre condivido l’allarme sulla saturazione e sugli effetti di captazione e impoverimento dell’attenzione che l’eccesso di connessioni produce (secondo le note analisi “psicopolitiche” di Stiegler), sono più restio a vedere necessariamente nell’avvento di queste tecnologie un progressivo azzeramento delle facoltà critiche, un appiattimento verso il basso ecc.

Intanto occorre con forza sottolineare ancora una volta, senza nessuna enfasi progressista, diomeneguardi, che comunque oggi circola molta più informazione e per molte più persone. Che questa informazione è più articolata, ha infinite forme comunicative (e non quelle ridottissime e ipercodificate del tempo pre-rete) e che dunque, piaccia o non piaccia, l’accesso è migliorato, aumentato e complessificato. Oggi la scuola per esempio deve confrontarsi con ragazzi che hanno modo di verificare quasi in tempo reale ciò che gli viene detto dai loro insegnanti, il che mi pare, sotto il profilo democratico, un fatto interessante.

Quello che si avverte è comunque che vi sia, specie nelle giovani generazioni più digitali, più conoscenza, più competenza nel ricercare, più differenza. A formarli non sono più solo le istituzioni ma tutto questo mondo di saperi poco normato ma anche straordinariamente ricco.

Si attribuisca la fine dell’umano, più che ai cellulari, -che semmai incrementano la disattenzione sociale hic et nunc, la distrazione, la debolezza della presenza fisica nel mondo, la dissipazione sensoriale-, a un sistema che mira, proprio nelle sue strutture formative essenziali (scuole, uffici, centri commerciali, stage, training ecc.) a depotenziare gli strumenti critici (gli “strumenti umani”), a forsennare con l’incitazione alla competizione quantitativa e performativa, a tartassare con le prove, i test e gli invalsi, a indurre alla vendita esasperata di sé ancor più che all’acquisto.

L’isolamento dell’uomo contemporaneo non è prodotto da internet che, anzi, come dice la parola stessa rete, appare una sorta di compensazione, di farmaco però soltanto generico purtroppo. Che non produce di sicuro condivisione autentica (salvo eccezioni però: molti gruppi solidali nascono anche in rete) ma fornisce almeno un effetto placebo alla totale parcellizzazione e transitorietà dei rapporti. L’isolamento viene da un processo molto determinato e strutturale di frantumazione del corpo sociale perseguito con le trasformazioni del mercato del lavoro, delle professioni, delle politiche di formazione e, certo, anche delle politiche del sapere.

E’ verissimo, come lo stesso Han ha sostenuto nel suo libro migliore, La società della stanchezza, che oggi le persone sono spinte all’autosfruttamento, ma questo non è l’effetto delle tecnologie ma di politiche molto precise che spingono al tutto contro tutti e all’azzeramento di ogni formula di agire sociale orientata autenticamente all’intesa e alla mutualità.

A me pare, senza alcuna velleità di celebrazione naturalmente, poiché mi rendo conto di quanto le tecnologie siano anche avvilenti in molti loro aspetti, che tuttavia non si possa addebitare loro l’impoverimento culturale del mondo. Al contrario direi seppure in forme davvero imprevedibili. E’ chiaro che occorre però riformulare drasticamente l’idea un po’ aristocratica e, ahimé, improponibile, di cultura che un certo modello di sapere intellettuale ci ha tramandato e non si rassegna (comprensibilmente) ad abbandonare.

Inviterei però a guardare con più accuratezza le potenzialità della rete e dei cellulari, ad avvertire la pulsazione di un mondo che proprio a partire dalle interconnessioni può a volte unirsi improvvisamente e produrre “ipergesti” (Citton) fenomenali.

Non credo affatto che le tecnologie siano salvifiche e sono convinto che vadano decostruite attentamente per vedere dove si annida la manipolazione o la strumentalizzazione a fini di asservimento commerciale, di sorveglianza ecc.. Non sono però neanche convinto che siano esse il male assoluto. Temo che questa lettura finisca con il farci perdere il bersaglio autentico. E’ come quando si accusa la famiglia dei problemi dei ragazzi. Si vede davvero il dito e non la luna a mio avviso.

Occorre un’attenzione raddoppiata per i fenomeni sottili, per le differenze. Il mondo è più complicato di un tempo ma non necessariamente peggiore, anche se l’esperienza culturale di un Rilke, di un Benjamin e di altri privilegiati dal talento e dalla sensibilità straordinari forse non saranno più possibili.

giovedì 4 giugno 2015

Il discorso dello psicoanalista capitalista



Mai come in quest’epoca gli psicoanalisti dettano legge. Il povero Lacan si rigirerebbe nella tomba, lui che suggeriva di “fare il morto”, di non prescrivere, di essere la casella vuota che consente al paziente di “fare il giro” senza mai incontrare un soggetto pieno.

Lo psicoanalista francese esortava gli analisti a non ergersi a maestri di verità (non so con quanta buona coscienza ma insomma).

E invece.

La salmodia delle ricette psicoanalitiche è diventata moneta comune del neo-moralismo contemporaneo.
I principali assiomi del “discorso dello psicoanalista” (non quello di Lacan evidentemente ma il suo succedaneo d’oggidì sub specie pedagogica), risultano essere:

maleficazione dell’adolescenza e giovinezza con particolare riferimento alle sue derive narcisiche, rintracciate però ubiquitariamente;

colpevolizzazione del godimento, che da secoli non raggiungeva questo grado di demonizzazione;

individuazione nella latitanza della figura paterna della maggior parte dei disagi del tempo (sub specie dissolvendi, evaporandi et sublimandi);

perorazione della frustrazione e di una “riformata” normatività;

sostanziale colpevolizzazione della “famiglia affettiva” ecc. ecc.

In realtà, sintetizzando le forme del suo discorso, esso non appare molto differente da quello delle pedagogie morali dei secoli passati, in particolare di ispirazione religiosa. In fin dei conti essa ci ripropone, con lievi eccezioni, il classico bagaglio dei vari catechismi, la sacralità rinnovata dei vincoli parentali, il valore incontestabile del lavoro, degli obblighi di studio e così via.

Non c’è che dire, la psicoanalisi, diciamo certa psicoanalisi (poiché si deve pure mettere in salvo coloro che dal suo interno si battono contro questa impressionante deriva), che sembrava ai suoi esordi aliena dal moralismo, addirittura scandalosa, di fondazione laica e positiva, è la nuova “religione del nostro tempo”, per dirla con Pasolini.

Ad essa si abbeverano i nuovi sacerdoti della retta via, che non necessariamente lo sono per mestiere ma semplicemente ormai assolvono questo compito -essendo in via di estinzione i suoi storici artefici-, dai pulpiti più aggiornati del nostro talk-show planetario. Gli altari dei giornali, i sagrati di certe trasmissioni televisive dove possono predicare senza timore di essere troppo contraddetti (da Fazio, dalla De Gregorio, dalla Gruber), i cenacoli delle loro associazioni di afflitti, le sacrestie di certe università servili, i chiostri di certi festival del nulla in continua espansione.

Molti anni fa ho creduto nella psicoanalisi, mi sono avvicinato ad essa proprio perché vi immaginavo un sapere coraggioso, capace di penetrare gli strati più oscuri della nostra esperienza senza il timore di nulla, amavo il suo linguaggio sessuato, la sua componente crudele, il suo gusto di sconvolgere i pregiudizi.

Ma il tempo è passato, oggi i suoi esponenti più in vista sermoneggiano accanto ai tutori dell’ordine, fanno buona mostra del loro riduzionismo guardandosi bene dal diagnosticare la genesi dei problemi dove davvero si trova (nei meccanismi del potere economico che giustifica loro stessi e i loro discorsi), si pavoneggiano dell’aver ridotto un sapere straordinario e rivoluzionario, per molti versi, in una catechesi per tutte le stagioni.

Ma si sa, il discorso dell’analista capitalista chiede risultati immediati, rapidi, il godimento del successo tutto e subito, la spendibilità e la visibilità massima. Ça va sans dire.

Da molto tempo, si capirà, cerco altrove l’alimento per pensare e vivere.

mercoledì 3 giugno 2015

Giovane e bella di François Ozon : il potere della bellezza



Questo film di François Ozon mi ha colpito. Giovane e bella intendo dire. Ozon mi aveva già saputo sedurre, sia in film più feroci come Gocce d’acqua su pietre roventi, sia in film incantati e impossibili come Ricki.

Qui tuttavia l’argomento tanto scabroso è condotto a mio giudizio in modo esemplare e con un tratto fondamentale e che lo differenzia da tanti film sull’adolescenza: nessuno giudizio e nessuna lagnosa sottolineatura, quando non morbosa, del malessere tante volte imputato a quell’età. Niente di tutto ciò: che liberazione!

Che cosa ci viene mostrato?
Un’adolescente bellissima, Isabelle, una Kore, che sceglie di divenire una prostituta, a Parigi.
Un tema che scuote molte sensibilità, specie di questi tempi, in cui parrucconi e parruccone dello psico-set si sono accorti che esiste un fenomeno che si chiama prostituzione giovanile, solo perché per la prima volta ha toccato, con grande diffusione mediatica, anche le classi abbienti (mentre prima, come è noto, riguardava i poveri e gli schiavi d’ogni dove).

Ma come ci viene raccontata questa transizione? La trasformazione di Isabelle in Lea? Anzitutto la ragazza, diciassettenne, ci viene mostrata, all’inizio, mentre è in vacanza con la famiglia, attraverso lo sguardo del fratellino. La prima inquadratura ce la mostra dall’alto, attraverso la lente di un binocolo, mentre seminuda prende il sole sulla spiaggia. Immagine perturbante ma anche molto istruttiva. Anche a giudicare dal seguito, e cioè dalla pervicace volontà del fratello di spiarla, questa sorella misteriosa e affascinante, arrivando a sorprenderla, senza essere visto, mentre nella sua camera si masturba.

Ozon sceglie questo punto di vista per presentarci Isabelle e credo che voglia suggerirci proprio di accomodarci in questo punto di vista, quello del fratellino, nella sua curiosità, nella sua eccitazione, nella sua ambigua innocenza, nella sua morbosa voglia di penetrare quell’universo tanto vicino eppure tanto irraggiungibile. Finalmente una visuale non pregiudiziale, una visuale accogliente e, soprattutto, eroticamente complice.

Se noi riusciamo a restare ben ancorati a questo sguardo allora la vicenda di Isabelle avrà molto da raccontarci, mentre non appena cominceremo a spostarci negli occhi degli altri personaggi adulti, o peggio di qualche diagnosta tra il pubblico, il rischio sarà sempre di soccombere ai pregiudizi e alle solite banalità psicologiche.

Isabelle, che ha un’avventura con un giovane tedesco nel corso della vacanza, è palesemente annoiata dal ménage famigliare. Il suo scopo è superare, con un giovane tedesco a disposizione e con un certo cinismo, la prova della perdita della verginità, dove la vediamo sdoppiarsi e guardare dall’esterno questo evento che non sembra coinvolgerla sotto il profilo sentimentale né fisico. Sbrigare questa pratica è un’operazione che le consente di inoltrarsi in un altrove che evidentemente la sollecita molto di più.

Ma attenzione. Qui la Kore non è la sprovveduta vispa Teresa che passeggia per i prati candida e ignara e si china, per la gioia degli psicoanalisti, a cogliere un narciso. Niente di tutto questo. Isabelle è una Kore decisa e determinata, che, al momento dell’incontro con un messaggero di Ade, l’uomo che le offre denaro in cambio di sesso, decide di inoltrarsi da sé negli Inferi e si trasforma per l’occasione. Il suo destino è al tempo stesso determinato dal Kairos, l’incontro occasionale, ma soprattutto dalla sua sensibilità già scaltra, pronta ad avvistare il fascino prepotente del mondo infero.

Un mondo infero che però, giustamente, Ozon ci propone nella sua veste contemporanea, lussuoso, ovattato, labirintico, accogliente e seducente. Quella dei grandi alberghi parigini. Isabelle in veste di Lea, sale agli inferi, mediante le scale mobili che la strappano al caos metropolitano e con la grazia di una ninfa che sa indossare perfettamente l’abito del desiderio, si inoltra verso lo sconosciuto. Che è proprio Lo Sconosciuto, un uomo adulto, o addirittura un vecchio, ogni volta diverso, al quale carpire la misura della propria desiderabilità ma al tempo stesso espugnare in un tempo estremamente breve il segreto del godimento.

Kore seduce Ade, non il contrario. E nessuna madre Terra, incasinata come è nell’ambiguità un po’ squallida dei traffici frettolosi degli amanti, può intuire il potere né la misura della figlia Kore.

Ozon fortunatamente ci risparmia ogni moralismo, evita di mostrarci una adolescente che finisce divorata dal drago che ha osato sfidare. Tutto al contrario. Quello che si disvela, in un climax che è al tempo stesso prodigioso e ricco di humour, è la progressiva padronanza del potere in dote fin dall’inizio alla giovane ninfa. Potere che lei stessa non sa, ancora non ha potuto sondare nei suoi lati veramente imprevedibili ma che ben presto saprà amministrare nei confronti di tutti, uomini e donne, all’occorrenza ponendoli di fronte alla loro ipocrisia e alle loro voglie inconfessate. Così accadrà con il patrigno, coinvolto in poche mosse nel gioco della seduzione semiincestuosa, interrotta solo dall’intervento adirato di una Era più stupefatta e impreparata che gelosa. Ma allo stesso modo allo psicoanalista, subito inchiodato da Isabelle che gli ricorda maliziosamente che i suoi clienti avevano la sua stessa età. E la madre stessa, posta di fronte al suo tradimento, scorto dalla ragazza dietro le quinte di una rappresentazione teatrale, ma ancor più di fronte al desiderio, forse latente, di essere anche lei “puttana”.

La ragazzina è forte e decisa, sta vivendo la sua avventura, perché di questo fondamentalmente si tratta, un’avventura nel tempo in cui l’avventura sembra impossibile. Avventura in ciò che delicatamente confiderà allo psicoanalista, il piacere dell’attesa, l’inoltrarsi negli alberghi, il lusso, l’incertezza dell’incontro, l’adrenalina della ripetizione, dell’immaginazione sovranamente sollecitata.

Ozon ha anche la cura di sollevarci dal dubbio che Isabelle, come vorrebbe certo sociologismo che non va per il sottile, lo faccia per denaro, o per le borse Louis Vuitton. Il denaro si accumula intatto nel suo armadio. Nessuna spesa. Isabelle-Lea sceglie di essere puttana per altro che non sia il guadagno o perfino il godimento dissipatorio in cui solitamente sociologi e analisti si rifugiano in mancanza di fantasia.

Giovane e bella è Isabelle e in fondo quello cui assistiamo è il mistero della bellezza, del potere che assegna a chi ne è portatore ma anche del suo peso, della sua complessità, del suo dolore. Niente angoscia della bellezza però in Isabelle, niente spalle curve o abbrutimenti adolescenziali. No, piuttosto l’esplorazione, portata all’estremo limite, del suo potere. Potere di procurare dipendenza, di dominare, potere di uccidere.

Ciò che forse neppure Isabelle-Lea può immaginare, nel suo impeto avventuroso e ribelle, è che la sua bellezza possa uccidere. E non solo metaforicamente.
In fondo al labirinto che la nostra eroina perlustra senza timori, anche lei incontra il suo minotauro. Un essere dolente e malinconico, come forse anch’ella è, nella mirabile e unica consapevolezza che giovani e anziani talora hanno. Un anziano che di lei si innamora, forse proiettando nella sua bellezza quella di una moglie che tale doveva essere stata al loro inizio.
Un anziano delicato e gentile, che riesce, forse il solo, a sciogliere un poco la durezza della sua armatura amazzonica. La guerriera con lui un poco accetta il gioco erotico, la seduzione, e perfino il piacere. Il dono del piacere di lei coincide con la (buona) morte di lui, che forse proprio questo cercava, chiudendo il circolo di una vita che sembrava non poter prescindere dal tributo irresistibile alla donna e al suo magistero erotico.

Questa è la vera cesura nel viaggio agli inferi (inferi di cui andrebbe rivisitata l’opulenta necessità, ben contemplata nella duplicità Ade-Pluto). Isabelle deve comprendere il potere della sua bellezza anche dove sembra irriconoscibile e incomprensibile.
Occorre tempo, occorre una sosta, dove tuttavia la vediamo davvero padrona del suo mondo, il cui squallore piccolo-borghese non sembra all’altezza della sua caratura. Non sarà l’apparato psicosociale ordito da questo contesto a poter riparare la ferita. Niente affatto.

Anche in questo Ozon, fedele allo sguardo poetico, intuitivo, amante che ha scelto fin dall’inizio, ci risparmia la caduta, che sarebbe stata fatale, nello psicologismo quotidiano.
Sarà un’altra bellezza, il potere di un’altra bellezza, una ninfa-stella come la moglie del cliente, che però è anche, -il cinema qui confonde le carte secondo me-, Charlotte Rampling. Una stella-ninfa che intercede per lei. L’incontro di queste due figure, nella cornice di un letto, nella delicata e magica manipolazione del viso che la Senex procura alla Puer, nel sonno indotto, una sorta di trance erotica, nella condivisione del desiderio (“anch’io avrei voluto farmi pagare qualche volta…” le confida la donna), è un incontro salvifico.

Non terapia, non presa di coscienza, non sanzione. La Isabelle che rinasce nella stanza d’albergo dove ha consumato piacere, morte e resurrezione è semplicemente una donna che ha espiato la colpa della bellezza attraverso l’assoluzione di un’altra donna, colei che sa per esperienza di cosa si tratta. Iniziazione, se si vuole, passaggio di testimonianza, magia rituale.
Così si scioglie il mistero della bellezza della Kore che ritroviamo nell’ultima scena in cui finalmente non è solo l’apparizione della ninfa con il riflesso perduto in uno specchio (martellante evocazione della duplice Isabelle/Lea). E’ lei (forse Isabellea?) a vedersi ora nello specchio, a guardarsi e a poter assumere tutto il suo potere. Ozon ci lascia rapiti nel suo mezzo sorriso rivolto in avanti, rivolto oltre, mentre Françoise Hardy, cantora ormai senza tempo della meraviglia adolescenziale, intona “Je suis moi”.