la gaia educazione

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martedì 20 gennaio 2015

Perdere l'anima: il successo nell'epoca ipermediale




Una breve e per forza di cose schematica riflessione sul successo.

E’ di grande evidenza che oggi (come peraltro anche prima dell’avvento del grande circo multimediale ma in forme diverse), il successo, la visibilità e il riconoscimento pubblico siano tra le mete più agognate della giostra sociale. Non solo per corrispondere, anche se è fondamentale, al ben noto “desiderio di essere desiderati” che tale risultato implica, ma anche per motivi di ordine materiale e di natura più letterale.

Vano sarebbe soffermarsi sull’ovvia ricca messe di doni che il successo porta con sé. Qualcosa di così remunerativo che consente di comprendere bene perché infatti la maggior parte, se non la totalità di coloro che lo conseguono, non riescono più a separarsene, ad ogni costo, avendo sviluppato rapidamente una vera e propria dipendenza. I casi sono sotto gli occhi di tutti. Non esiste praticamente pentimento sulla via del successo.

Al successo si può giungere per molte vie, alcune casuali e fortuite, che spesso generano dei successi temporanei (come i reality, i talk ecc.), e che spesso peraltro conducono a cadute tragiche seguite da depressioni, tossicodipendenze ecc.

Altre più graduali e sicure, specie nel caso del mondo dello spettacolo (attori, cantanti, conduttori ecc.), per assicurarsi le quali spesso a valere è un effettivo talento, o meglio il gradimento diffuso del talento, dunque la “popolarità”. Tali percorsi, talora anche molto lunghi e accidentati, conducono a un successo meno transitorio, che solitamente decade con l’età ma non necessariamente. Anche qui tuttavia, non si viene meno ad un certo continuo restyling, un ‘opera di accurato “adeguamento” del proprio profilo ai gusti del pubblico e l’interdetto a ogni eccesso di “differenza”.

Vi è poi il caso dei giornalisti, oggi campioni della popolarità di un tempo totalmente arroccato sull’istantaneità e sul breve termine, che tuttavia debbono dimostrare una certa attitudine di assertività e presenza, debbono possedere un eloquio originale, dire cose nuove senza però eccedere in trasgressione. I casi sono numerosi.

Più specifico e più singolare, oltre che inquietante, è il caso degli intellettuali. Da noi un grande apripista, in questo settore, fu Francesco Alberoni già molti anni fa. Di lui il meno che si possa dire è che, del suo potenziale talento di intellettuale radicale fece ben presto un falò, preferendo di gran lunga diventare un vero e proprio caposcuola nell’arte dell’annacquamento, della divulgazione e della svendita delle idee a padroni sempre più remunerativi e capaci di fornire visibilità e fama. In questo caso la perdita dell’anima, posto che mai essa abbia avuto sede in lui, è acclarata.

Su questa via si sono poi accodati in molti, con gradi diversi di prostituzione intellettuale ma sempre con l’obiettivo di emergere dall’oscurità accademica o professionale, di cavalcare una visibilità remunerativa che consentisse di diventare allo stesso tempo influenzatori e star. E di riempire possibilmente rapidamente il proprio portafogli e il plotone dei fan. All’inizio i lidi più agognati furono soprattutto i giornali. In seguito soprattutto le televisioni, vere e proprie catalizzatrici e moltiplicatrici del successo.

Influenzatore si diventa naturalmente a patto di accettare di essere potentemente rimodellati dai mezzi della diffusione. E’ un assioma banale ma inoppugnabile. A questo scopo ci si può affidare a consulenti specializzati che, a caro prezzo, “popolarizzano” a patto di cedere ad ogni richiesta di rimaneggiamento che riguardi il linguaggio, i toni, le idee (che devono essere adattate al grande pubblico), di sicuro l’immagine (rielaborata in funzione della vendita).
Naturalmente ogni trionfo ha i suoi prezzi, e nel caso di quasi tutti costoro, lo scadimento qualitativo della loro ricerca, il tono elementarizzato delle loro argomentazioni e soprattutto la levigazione progressiva di ogni accento di eccessiva “diversità” o estremismo sono indispensabili.

Beninteso, si può essere prescelti dal mercato editoriale e mediale anche e proprio in quanto “outsider” autentici (almeno fino al momento dell’assunzione nell’eden mediale), e si pensi a fenomeni come quelli di Busi o di Mauro Corona o altri, ma a patto poi di reggere costantemente la maschera e di non discostarsene troppo, perché la regola del mondo dello spettacolo rimane quella di un buon grado di prevedibilità.

Il successo arride dunque ai “fenomeni”, ai “mostri” da una parte e agli adattabili dall’altra.
Prezzo unico del viaggio, non procrastinabile: perdere l’anima e la faccia. Si badi, l’anima, come intimità propria che viene inevitabilmente cancellata (questo è il prezzo che deve pagare ogni moderno Faust), e la faccia, sostituita poi definitivamente da una maschera, che deve rimanere sempre identica, talvolta persino nel costume (la camicia aperta, quella bianca con cravatta, la terribile condanna alla stessa pettinatura o alla stessa barba incolta). Di volto, come manifestazione inconfondibile della propria unicità, mai più neanche a parlarne.

Tutto questo è sicuramente vecchio e insopportabile per un’epoca che ha già dimenticato i Benjamin, i Warhol e i MacLuhan (e il mito). Comunque è ciò che si mostra intorno a noi e che ci riguarda, tutti.

domenica 4 gennaio 2015

La scuola è una gabbia



La scuola è una gabbia. Una gabbia molto efficiente. Una gabbia a molti livelli, con strutture di separazione, gerarchizzazione e soffocamento pervasive e capillari.

La gabbia scolastica è tale perché bambine e bambini e ragazze e ragazzi devono essere sottratti al fuori, alla libera circolazione e alla libera esperienza. Bambine e bambini e ragazze e ragazzi devono essere deportati in massa, ogni giorno, molto presto, allo scoccare dell’ora del lavoro totale, e fino a che l’ora del lavoro totale non termina. Lì sono messi ai ceppi dell’immobilità e della passività, per anni e anni, fino a che non siano pronti per essere a loro volta caricati nel ciclo del lavoro totale.

La gabbia agisce in modo preciso e indefettibile.

Essa è ben visibile nelle classi, celle obbligatorie, chiuse e separate, dalle quali si può uscire solo con un permesso o quando l’orario di segregazione finisce. Le classi prevedono numeri fissi di compagne e compagni sezionati in orizzontale, tutti della stessa età. Un tempo erano sezionati anche per genere, tutti dello stesso sesso (almeno biologico).

Nelle classi penetrano gli agenti dell’insegnamento, isolati e fungibili al bisogno, essi stessi ben divisi per categoria disciplinare, che debbono rispettare accuratamente. Perché nella gabbia il sapere penetra a sua volta sezionato in celle di conoscenza, ognuna ben separata dalle altre, in modo che mai si abbia del sapere un’idea complessiva e in modo tale che l’ideologia complessiva di un acculturamento siffatto, devitalizzato, separato rigorosamente dal reale e deprivato di ogni armonia e integrità, possa funzionare a dovere. Un tale sapere sarà immaginato nella sua cacofonica e geometrica figura a celle isolate e non comunicanti, imago stessa dei mestieri alienati che ab initio ognuno di coloro che passa attraverso la gabbia, deve interiorizzare.

La gabbia è visibile nelle procedure, nei fogli quadrettati e a righe, nella struttura delle aule, nei banchi, nelle sedie, negli apparati di valutazione, con schede sempre più simili a gabbie e valutazioni rigidamente sezionate e gerarchizzate.
La gabbia si apre sull’aperto solo a patto che l’aperto sia stato previamente ingabbiato e sezionato. All’esterno si esce solo costruendo un canale di comunicazione tra una cella della gabbia e una cella del mondo esterno, esso stesso in larga misura edificato secondo il modello unico della gabbia. Null’altro vi deve filtrare. Al ritorno dal fuori bisogna compilare relazioni che ingabbino l’esperienza vissuta e la rendano misurabile e valutabile, secondo la logica ferrea della quantità che domina incontrastata nel mondo della gabbia.

L’esperienza deve sempre essere castrata e vanificata. Ogni angolo della gabbia è sotto controllo e nulla vi sfugge, se non per distrazione degli agenti del controllo. Ogni comportamento non a norma è sanzionato. Presto c’è da attendere l’ingresso di telecamere a circuito chiuso in modo che nulla più possa essere nascosto all’occhio della disciplina.

La gabbia è al lavoro nella censura e ripartizione dei sensi di bambine e bambini e ragazze e ragazzi, che devono funzionare sempre e solo in maniera separata. Vista e udito dominano totalmente gli altri sensi, considerati inaffidabili e ambigui, troppo corporei, poco suscettibili di essere comparati e parametrati. L’integrità di ogni esperienza, che si misura sulla globalità percettiva e sull’investimento dell’intera persona, mente, anima corpo e emozioni, è invariabilmente sabotata e scissa, secondo la legge assoluta della gabbia.

La gabbia è un luogo dal quale non si può uscire. Bambine e bambini e ragazze e ragazzi vi sono rinchiusi perché solo il loro cervello possa esservi esercitato a interiorizzare le forme scisse e separate del dominio e perché incorpori, in virtù della disciplina ascetica, sessuofobica e ripetitiva del lavoro scolastico, il ritmo del lavoro totale, il suo non senso, la sua inamovibilità. In una parola il suo essere l’unico orizzonte possibile.




Occorre far saltare la gabbia, puntando a far esplodere a uno a uno tutti i meccanismi operativi che la strutturano e che rendono impossibile qualsiasi esperienza autentica e soprattutto degna della vita, unica e irripetibile, di bambine e bambini e ragazze e ragazzi, dei loro desideri, delle loro attitudini, della loro singolarità.

Occorre far saltare la chiusura, perché bambine e bambini e ragazze e ragazzi possano nuovamente circolare nel mondo, imponendo la loro misura e la potenza della loro insubordinazione.

Occorre far saltare le scissioni disciplinari, perché ogni cosa che si impara sia integra come lo è nel mondo, frutto dell’intersezione di saperi diversi e di informazioni e tecniche che travalicano di gran lunga ogni ripartizione.

Occorre far saltare le procedure oppressive della valutazione perché ogni cosa imparata sia valutata solo in base a come si rende capace di incrementare e intensificare l’esperienza vitale alla prova dei fatti e del tempo.

Occorre far saltare le aule, i sezionamenti orizzontali, affinché le diverse età, i sessi, le forme si intreccino e si scambino nella proliferazione ed estensione del campo d’esperienza.

Occorre far saltare la gerarchizzazione dei sensi, perché la pelle, la carne, il movimento, il piacere possano tornare ad essere la materia prima di un mondo finalmente corrispondente alla grande potenza sensibile racchiusa nell’ età più ricca.

Occorre far saltare la scuola, perché si ritorni nel mondo, bambine e bambini, ragazze e ragazzi e adulti infine, per immaginare una vita che metta il lavoro subordinato e castrato fuori gioco, e il desiderio e il piacere, la fantasia e l’operatività integra e plenaria di tutti, nella loro irriducibile singolarità e differenza, al centro.