la gaia educazione

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domenica 7 febbraio 2016

"Voi dovete prendere una cosa, perché vi parli..."



“Voi dovete prendere una cosa, perché vi parli, come l’unica cosa che esista, durante un certo tempo come l’unica apparizione, che dal vostro amore attivo ed esclusivo si trova collocata nel centro dell’universo e a cui in quel luogo incomparabile servono in quel giorno gli angeli”
In un altro evo, in un altro eone, si potrebbe dire, scriveva così Rainer Maria Rilke a Baladine Klossowska.
Angeli? Quelli, davanti all'imperativo alla saturazione, han fatto fagotto da tempo. Amore esclusivo? Merce di altri tempi. Apparizioni? Roba da psicofarmaci.

Fare troppo fare male, si potrebbe dire, proverbialmente.

Che tempo inquieto, febbrile, tormentato! L’apollineo suggerimento di Rilke, solitario scultore del proprio tempo e della propria opera, da intendersi come autentico opus alchemico di distillazione poetica, oggi cade nel guazzabuglio, anzi nello gnommero, per dirla con Gadda, di un’umanità smarrita in un’operatività multipla e senza requie. Chissà che simpatico ritratto saprebbe farne lui, il Gran Lombardo, con il suo impareggiabile humour: …gli umani, se ancor tali si posson dire, appaiono sempre più come la rana di Spallanzani, uno scalpiccio di riflessi elettrici e un inane avviticchiamento a microscopiche protesi di materia insalubre che disperdono i loro vani fosfeni nell’aere…”

Se si è alle prese con una cosa sola, si avverte una specie di senso di colpa. Non far nulla poi, è solo una fantasia depressiva, un’allucinazione perversa.

Siamo tutti arruolati nell’esercito del superfare, del plurifare, al contempo guidare, comunicare al cellulare e programmare la spesa. Oppure leggere e ascoltare la musica, più magari cucinare. O anche, studiare, guardare la tv e chattare. E ognuno si faccia i propri esempi. Non proprio sempre in simultanea ma perlopiù con una capacità sempre più sofisticata di saltellare dall’una all’altra cosa con strabiliante rapidità.

E’ fin troppo facile e banale osservare quanto ciò corroda l’intensità di qualsiasi esperienza, quanto prosciughi la sua profondità, quanto determini un impoverimento straordinario delle possibilità di esplorare, estendere e articolare la singolarità di ogni opera.

Non si è mai con sé stessi o con-uno soltanto, sempre in molti, in molte cose, frantumati e alienati in corridoi che si sommano e si intrecciano non lasciando scampo alla singolarità immensa dell’unico incontro.

Non più tempo per la semplice contemplazione, non più tempo per il vuoto e per la riflessione, se non all’interno di esercizi meditativi che appaiono però non un elemento della consuetudine vitale quanto un esercizio compensatorio e spesso tristemente programmato.

La nostra vita scorre in un continuum sempre più accelerato e stratificato in cui tutto si macina parallelamente, si disperde, non riesce quasi mai ad assumere il rilievo che ne renderebbe possibile un compimento organico.

Troppo ci viene richiesto ma troppo, come ha ben visto Byul Chung Han, ci richiediamo, in un’orgia di autosfruttamento che non credo abbia eguali nella storia e certamente nella preistoria. Siamo sempre al lavoro, ogni cosa al centro del nostro campo di interesse è lavoro, cioè sfruttamento, operare con efficienza, nulla è più affidato al flusso naturale del tempo ma ad un timing completamente domesticato e compresso.

Dai bambini ai vecchi, che solo in virtù di qualche demenza possono placare l’ansia produttiva,
occorre darsi da fare, sia per dovere, sia per diletto, ma comunque dentro ad una macchina che impone ritmo, quantità e rapidità.

Per chi vive nell’università, una notoria ex-isola di privilegio-per-pensare, ciò si traduce nel truce imperativo ad essere produttivi, come se il senso della ricerca si potesse tradurre in prodotti, in quantità o in masse critiche. Sterminando attraverso ciò appunto il pensiero.

Il delirio è finalmente arrivato, non come un mostro a più teste che devasti il vivere sociale, ma come un saccheggio quotidiano e implacabile della nostra possibilità di fare esperienza, di poterla vivere pienamente, facendo di una cosa sola l’unica che, per un certo tempo, sia al centro della nostra attenzione, per tutto il tempo che la sua fisiologia, la sua statura, la sua anima, e il nostro smarrito amore, necessitino.

Ciò che ne deriva, è sotto gli occhi di noi tutti, se ogni tanto li alzassimo dal nostro frenetico fare, fare, fare.